Orrore (Genova 935)

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Prologo e I CAPITOLO “Di come Gusberto si scelse la moglie”

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ORRORE PRIMO CAPITOLO Scaricabile in .pdf

PROLOGO

Voglio raccontare questi accadimenti così come in gioventù li ho appresi dalla viva voce di coloro che li hanno vissuti, possa Iddio misericordioso ammettere questi umili peccatori al Suo cospetto anche se non sono degni della sua infinita bontà. Li ho annotati giorno dopo giorno nel corso degli anni, aggiungendo via via i particolari dei quali venivo a conoscenza o che, per qualche motivo, mi apparivano all’improvviso più chiari e nitidi. Vorrei rivedere quanto ho scritto nel suo complesso, ma sento di non averne più il tempo e per questo mi limito a qualche correzione resa necessaria, per amor di verità dalle informazioni delle quali sono fortuitamente venuto in possesso nei tempi più recenti. La fatica che sto facendo per riordinare questi miei fogli, alcuni dei quali molto vecchi, rovinati e sbiaditi, è tanta, perché ormai la vista mi fa difetto e la mia schiena mal sopporta di rimanere a lungo piegata sul banco della biblioteca. Tuttavia sfido con letizia i limiti che l’età mi impone giacché il fine è, a mio modesto giudizio, importante: i posteri non dovranno smarrire la memoria di quanto è accaduto perché perderla definitivamente significherebbe cancellare l’ultimo brandello di verità al riguardo dei terribili momenti che questa città si è trovata a vivere. Poca cosa è, purtroppo, quel che è riuscito a sfuggire alle fiamme del rogo appiccato dai Saraceni alla vecchia cattedrale di San Siro fuori le mura. Resta né più né meno quello che i sopravvissuti hanno potuto raccontare, aggiungendo dicerie, favole, iperboli e arricchendo la verità a proprio uso e consumo, magari soltanto per descriversi come eroi a figli e nipoti o per metterli in guardia da quello che era e resta il nemico. Era l’agosto del 935, quando, durante il sacco di Genova, le fiamme distrussero gli archivi del Vescovado divorando i libri, gli antichi rotoli e tutti gli archivi: carta più preziosa dell’oro, degli arredi e dei paramenti, più preziosa anche dei gioielli tempestati di pietre custoditi nelle segrete le cui porte si spalancarono alla furia incontenibile e feroce dei predoni arabi. Dirò subito che tenterò di non peccare di leggerezza. Per questo, in ultima stesura, ho eliminato alcuni degli episodi di vita quotidiana che avevo annotato, circostanze di per sé colorite, ma non utili alla comprensione per colui che si accingerà a conoscere ciò che non è raccontato altrove. L’ho fatto proprio per allontanare la tentazione della superficialità morbosa che è insita nella natura umana e per questo è insidiosa trappola, nella quale chi scorre queste righe deve cercare di non cadere. Mi rendo conto che persino io faccio fatica a evitarla. Troppo facile, ma poco onesto, sarebbe ridurre tutto a una storia d’amore e d’interessi, di morte e di vita, di odiosa irriconoscenza o di preziosa d’amicizia, elementi che, pure, si trovano, nessuno escluso, in queste pagine. Comincerò, dunque, col dire dello spaventoso incendio che rase al suolo chiese, case e botteghe e distrusse la cattedrale in una notte di cielo terso e vento teso di insolita tramontana in piena estate, quella dell’assalto degli infedeli nel corso della quale dei quattromila abitanti della città, più di un terzo, ne risultò ucciso a fil di spada e molti altri furono catturati mentre il resto della popolazione fuggiva sui monti e nelle vallate a cercare riparo e rinforzi. Un’altra difficoltà devo affrontare: non mi è facile mantenere l’imparzialità del cronista che l’onestà mi impone, perché è umano che ad ognuno di noi un proprio simile risulti in qualche modo più vicino e per questo in qualche modo giustificato anche per le azioni meno opportune o addirittura nefande. Così com’è umano che verso altri, che siano stati realmente conosciuti o semplicemente tratteggiati dalle parole altrui, ogni soggetto possa sviluppare una naturale avversione. Non pretendo di raccontare la verità assoluta perché non ho potuto attingere a tutte le fonti possibili: alcuni dei protagonisti di questa vicenda non li ho mai conosciuti. Taluni sono morti prima che potessi chiedere la loro versione della verità. Di altri si sono perse le tracce. Di certo c’è che di ogni persona della quale racconto in questo libro ora non resta che la memoria dei pochi che come me hanno vissuto a lungo. Quanto ho appreso risale, dicevo, al tempo in cui ero un giovanissimo seminarista, nei primi anni del vescovado di Teodolfo, il quale costruì la nuova cattedrale di San Lorenzo – e del quale, per inciso, fui a lungo segretario – giacché io nacqui settimino allo scoccare della settima ora del giorno di Natale dell’anno dell’assalto saraceno e questo è tutto quanto conosco ufficialmente delle mie origini perché nelle registrazioni non si leggono né il nome di mio padre né quello di mia madre. Soltanto si dice che fui affidato alla Chiesa dopo essere miracolosamente sopravvissuto ai primi giorni di vita in cui ogni ora sembrava quella giusta perché me ne andassi anzitempo al cospetto del Signore, tanto che il battesimo mi fu impartito dal vescovo Ramperto in persona subito dopo la nascita, un atto pietoso perché la mia anima non fosse relegata nel Limbo con tutti coloro che portano seco l’orribile macchia del peccato originale. L’argomento, però, non sono i dettagli della mia lunga e insignificante esistenza e poco importa pure che il lettore sappia che, se il Signore vorrà concedermelo, vedrò domani per l’ottantunesima volta il sorgere del sole nel giorno della Santa Natività, essendo vescovo di questa città ormai da molti anni Giovanni II. Quello che spero è di rendere un servizio a chi verrà dopo di me, perché possa conoscere veramente un pezzo di storia che per la tragica contingenza degli eventi, non è mai stata scritta e certamente ormai soltanto io conosco così bene. La mia speranza è che quando saranno ormai trascorsi i secoli, il passato possa insegnare qualcosa al futuro ormai diventato presente. Nasconderò questo manoscritto affidando il suo ritrovamento alla Provvidenza. Sia Dio Onnipotente a decidere se e quando sarà il momento che qualcuno lo trovi aprendo le antiche lapidi dei monaci. Lo depositerò con cura vicino allo scheletro del prete che ne è il protagonista. Aprirò la sua bara in gran segreto per deporre tutte le pagine scritte giorno dopo giorno, pagine in cui ho raccolto la sua storia e quella degli uomini del suo tempo. Questo perché – è bene che tu che stai leggendo lo sappia – buona parte di quello che conosco mi è stato rivelato in confessione al momento dell’estrema unzione proprio dal sacerdote Alfonso, segretario del vescovo Ramperto, il quale mi fece l’onore di insegnarmi molto di quello che so e il metodo per acquisire ulteriore conoscenza. Molto ho scritto di questo figlio di Dio e altro aggiungerò, se la vita non mi verrà meno a breve e la vista mi assisterà fino a quando avrò terminato, aggiungendo alcuni fogli all’involto che sto preparando per essere depositato nella tomba di quel peccatore e servo di Dio al quale il Signore ha già presentato il conto per i suoi peccati, ma certamente, ha anche attribuito il compenso per le sue azioni giuste e misericordiose del quale godrà quando raggiungerà il regno dei cieli. E se non ce la farò a finire e se l’Altissimo non vorrà concedermi il tempo per occultare il libro agli occhi dei miei contemporanei, spero che almeno mi dia la forza di bruciarlo, perché oggi non è tempo che si conoscano questi accadimenti. Sono cambiate molte cose rispetto agli anni dei quali in seguito andrò a raccontare, alcune delle quali riguardano l’organizzazione del potere nella città, mentre altre semplicemente gli usi e le consuetudini. La memoria di uomini buoni, contaminata dalla lettura che se ne potrebbe dare nel tempo attuale, troppo lontana dagli eventi per inquadrarli nel giusto contesto e allo stesso tempo troppo vicina per consentirne una interpretazione scevra dai condizionamenti del contingente, potrebbe essere ingiustamente tramandata come esempio di empietà e turpitudine. E questo sarebbe un’ingiustizia e un male più grande dei peccati in cui i protagonisti di questa storia sono inciampati per loro sventura o nei quali si sono gettati a capofitto con consapevolezza e colpevole determinazione.

XXIV Dicembre MXVI a. D.

I CAPITOLO

(Di come Gusberto scelse la moglie)

Il fumo di decine di lampade a olio e candele satura l’ambiente. L’odore del sego bruciato striscia sotto la porta dello studio e pervade la casa. Le finestre dello studio sono eternamente coperte di pesanti tendaggi ormai impregnati di quella puzza. Padre Gusberto è terreo come se avesse visto il Demonio in persona. Il riflesso delle fiammelle lo fa sembrare una maschera tragica.

<Mi hanno riferito che il popolo sta preparando ancora una volta il fuoco pagano. Sono a centinaia a lavorarci, gli stessi che hanno l’ardire di professarsi buoni cristiani e la domenica si presentano puntuali in chiesa. Stanno accatastando fascine su fascìne per ingrossare le pire, là, fuori dalle mura. Sprecano il tempo e le forze che l’Altissimo ha concesso loro. E anche la legna che Egli ha voluto concederci per scaldarci e per cuocere il cibo. Quegli invasati li usano per onorare gli idoli pagani e offendere il Vero Dio. È una fortuna per l’intera città che io abbia finalmente convinto il Vescovo a vietare l’allestimento dei falò almeno nella piazza. Questi maledetti ci porteranno alla rovina, consegneranno se stessi e tutti noi nelle mani del Demonio>. Padre Gusberto non parla con la moglie che pure è lì, accanto a lui, ma con se stesso. Snocciola anatemi come se fossero una litania, come se ogni parola fosse destinata a mettere un mattone sul muro che sta idealmente costruendo tra se stesso e il Maligno. E nel frattempo si fa velocemente il segno della croce tre volte e poi altre tre e tre volte ancora. Subito dopo comincia ad agitare le mani davanti alla faccia come se così facendo potesse allontanare da sé l’idea dell’inferno, fatto di roghi, di un magma bestiale di peccatori che gridano per le atroci torture, di odore di marcio e paura. Fatto, soprattutto, dell’assenza della Luce, la punizione che teme di più. Il prete ne è certo: l’avvento del Demonio è una minaccia reale e per giunta incombente e ad aprire la strada a Lucifero in persona, Principe delle Tenebre, saranno proprio quei traditori infedeli che si ostinano a omaggiare le loro false divinità con le fiamme, che sono le porte degli inferi. Gismunda non capisce perché il marito si preoccupi tanto. Il falò del primo maggio è una tradizione. Si faceva quando lei era bambina così come quando lo era sua madre. Non aveva mai portato con sé né disgrazie né flagelli. La moglie del prete ricorda bene che quando era piccola amava ballare intorno al fuoco e divorare le frittelle di formaggio cotte nell’olio bollente proprio in quei giorni di allegria. Quando era diventata un po’ più grande aveva cominciato a scambiare timidi sguardi coi giovani che ballavano a torso nudo attorno al palo, al centro della piazza. All’epoca sognava di sposare Rachis, che era grande e forte e saltava più in alto degli altri, segno che la fortuna sarebbe stata con lui per tutto l’anno. E invece il padre Consalvo l’aveva data in moglie a Gusberto, che si preparava a diventare prete. A Gismunda non avevano chiesto se volesse condividere la vita intera con quel ragazzetto più giovane di lei di un anno, magro e olivastro, un po’ curvo, con le dita sottili e nervose, i tratti del volto spigolosi, il naso affilato, le orbite livide, i capelli dritti come spaghi ed eternamente unti. Il padre della ragazza non voleva dividere le sue proprietà e desiderava lasciare tutto a Martino, l’unico figlio maschio che la moglie fosse stata capace di dargli. Mentre nel resto del mondo l’eredità spetta al primogenito di sesso maschile, a Genova è abitudine distribuire i beni del defunto tra la moglie, se è ancora in vita, e tutti i figli della coppia. Consalvo, invece, voleva che alla sua morte toccasse tutto a Martino, che pure lo detestava più delle sorelle, anche se non aveva ancora il coraggio di prendere le loro parti e di difenderle dal padre. Era una fortuna, pensava il mercante di pece, che tre delle sei figlie che quella moglie incapace gli aveva sfornato fossero morte ancora bambine. Doveva trovare il modo per togliere la quota di eredità alle altre. Così quando Carlo, padre di Gusberto, si era presentato per chiedere in moglie Gismunda a nome del figlio e soprattutto quando questi aveva accettato che la ragazza <rinunciasse spontaneamente> all’eredità, non ci aveva pensato su due volte e aveva accettato l’offerta. La giovane non è particolarmente bella, ma il suo viso è sempre illuminato dal sorriso. I suoi occhi sono appena due fessure, tuttavia sono luminosi come quelli di nessun’altra. Gusberto, però, non l’ha scelta per questo, ma perché è muta dalla nascita. <La ragazza non è sorda e quindi è in grado di obbedire> aveva pensato quando l’aveva individuata come sua consorte. Sì, sarebbe stata la moglie ideale perché non può criticare l’operato del marito, né può annoiarlo con futili discorsi da donne o rimproverarlo, oppure lamentarsi del suo comportamento con le amiche o la famiglia. Il futuro prete aveva programmato la sua vita con pignoleria: il sacerdozio, che era il primo passo verso il potere e la moglie muta perché, se proprio doveva avere una moglie, non gli desse guai e noie. Non gli importava che fosse particolarmente bella. A dir la verità prima di fidanzarsi non l’aveva mai vista né si era chiesto che aspetto avesse. Non importava. L’unica cosa che contava veramente era conquistare il Regno dei Cieli. Ovviamente passando per la più alta carica del Vescovado.

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Carlo, il padre di Gusberto, era arrivato a Genova da Vadum nel 916, proprio l’anno della nascita dell’unico figlio. Aveva subito preso servizio alle dipendenze del nuovo vescovo Ramperto al quale il priore del convento del suo paese lo aveva raccomandato come uomo retto e onesto. Con quelle credenziali era stato subito nominato major e aveva cominciato ad amministrare i terreni della Chiesa. A quel tempo non aveva proprietà personali, ma la gestione delle vigne e delle campagne del vescovo gli aveva consentito di vivere dignitosamente e di mantenere il bambino, la cui madre era morta pochi mesi dopo il parto. Gusberto era cresciuto a casa del vescovo, dato a balia a una serva che aveva una creatura della sua stessa età. A Ramperto, che di figli non ne aveva mai avuti, piaceva quel piccino così silenzioso, per nulla monello, che preferiva stare ad ascoltare i discorsi degli adulti piuttosto che dedicarsi ai rumorosi giochi dei suoi coetanei. Gli aveva insegnato personalmente a leggere e a scrivere in latino e quando si era accorto che Gusberto imparava in fretta gli aveva fatto dono della possibilità di accedere alla biblioteca, dove il giovinetto amava appartarsi a leggere e rileggere Sant’Agostino. Carlo era riconoscente al suo vescovo, tuttavia pensava che il futuro del figlio non fosse nei libri, ma nell’aratro. Ramperto non era più giovanissimo e quando sarebbe morto, il vescovo che lo avrebbe sostituito avrebbe portato con sé i propri uomini di fiducia liberandosi di quelli del suo predecessore. Allora lui e il figlio si sarebbero ritirati nel manso della Valpolcevera che gli era stato concesso dallo stesso Ramperto come parte di ricompensa per il suo lavoro. Lì, nelle terre sulla sponda del fiume e sulla collina scaldate dal sole per gran parte della giornata, si potevano piantare la vite e gli ortaggi e allevare tutti gli animali necessari al sostentamento suo, del figlio e, sperava il major, della nuora e dei nipotini che prima o poi sarebbero arrivati. Per adesso i terreni venivano coltivati per metà da una famiglia di contadini della zona a cui Carlo, troppo occupato a gestire le terre del vescovo, li aveva affidati. Il major chiedeva ai contadini un quarto del raccolto, tre uova la settimana, tre polli e due conigli l’anno. La stesse cose toccavano al vescovo in tributo. Al momento opportuno, pensava Carlo, sia lui sia Gusberto avrebbero dovuto sostentarsi facendo loro stessi i contadini. Invece il figlio non sapeva ancora usare l’aratro e nemmeno ne voleva sapere di imparare. Tuttavia Carlo non aveva il coraggio di opporsi a Ramperto, che amava tenere il ragazzo vicino a sé. La sera, quando il major tornava a casa stanco, quasi sempre il figlio era già a letto e la mattina, quando si alzava che non era ancora scoccata la prima ora, Gusberto dormiva ancora. Ogni domenica, a pranzo, ripeteva al ragazzo che ormai non era più un bambino e che dalla settimana successiva l’avrebbe portato con sé perché doveva imparare il mestiere del contadino. <Devi cominciare ad aiutarmi nel lavoro di controllo dei coloni e della riscossione dei tributi> diceva Carlo. Ma ogni volta Gusberto tagliava corto dicendo che stava per cominciare l’Avvento o la Quaresima e per questo doveva fare questo o quel lavoretto per Ramperto o che il vescovo gli aveva chiesto di pulire la biblioteca. Fino a quando, una domenica, mentre il padre addentava di gusto una bella coscia di pollo pensando beato che, dopo sei giorni di minestre e frittate di erbe, finalmente era venuto il momento del pranzo della festa, Gusberto, che aveva dodici anni, gli aveva comunicato che sarebbe diventato prete. <Figlio mio, non puoi farti prete. Non siamo ricchi. Non ho i soldi per farti studiare. È meglio che tu capisca che la tua vita è nei campi> aveva detto Carlo. <Mai mi sono aspettato di avere aiuto da te – aveva risposto con disprezzo il ragazzo -. Non ti chiederò di rinunciare ai tuoi diritti sui terreni o alla casa in Valpolcevera per pagare la scuola monastica perché tanto so che non lo faresti. La verità è che ti dà fastidio che io studi e vuoi che rimanga povero e contadino come te. Sarà il vescovo Ramperto a pagare i miei studi. Così lui ha deciso e non credo che tu abbia nè il diritto nè il coraggio di contrariarlo>. Quindi Gusberto si era alzato dalla tavola lasciando tutto il cibo nel piatto. Il mattino dopo Carlo, senza aver chiuso occhio per tutta la notte, era uscito da casa molto presto per andare al lavoro perché per lui il dovere non ammetteva eccezioni. Il figlio, non appena aveva sentito la porta di casa chiudersi, era sceso dal letto, si era coperto come meglio poteva coi miseri panni a sua disposizione ed era andato nelle stalle del vescovado, dove lo attendeva il carro che, scortato da cinque uomini armati lo avrebbe portato all’abbazia di San Colombano a Bobbio. Il carro era carico di bauli che contenevano abiti, libri e suppellettili per arredare la cella di Gusberto nella scuola monastica. C’era anche un mantello foderato di pelliccia nel quale il ragazzo si era avvolto prima di partire senza salutare il padre e senza mai voltarsi indietro, ben felice di non doversi accomiatare. Carlo, quella mattina, si era avviato verso la vallata del Bisagno col groppo in gola, mettendo un piede davanti all’altro, senza mai alzare la testa, proprio come un asino da soma. Portava il peso del dolore per quello che il figlio gli aveva detto, ma mai aveva pensato di fermarsi a casa per discutere con Gusberto. Avrebbe capito di avere sbagliato solo la sera, una volta tornato a casa, trovando il fuoco spento. Aveva subito capito che era inutile cercare il figlio. Il ragazzo non lo aveva nemmeno salutato né gli aveva detto dove andava. La prima reazione era stata di rabbia e per questo l’uomo aveva afferrato il piatto della cena di Gusberto che era rimasto sul tavolo dalla sera prima e lo aveva lanciato contro il muro. Poi aveva prevalso il dolore e a Carlo non era rimasto che accasciarsi sulla sedia. Aveva pianto a lungo. Poi aveva pensato di chiedere all’attendente del vescovo dove era andato suo figlio. Ma anche se fosse riuscito a saperlo sarebbe stato inutile. Non poteva opporsi alla volontà di Ramperto, inoltre non aveva né il tempo né i mezzi per affrontare un viaggio che, lo sapeva, sarebbe stato inutile perché non aveva argomenti per convincere Gusberto. Avrebbe voluto scrivergli una lettera e inviargliela tramite il vescovo, ma sapeva a malapena scrivere i numeri e il nome delle cose che raccoglieva per il vescovado: frutta, verdura, tavole di legno, uova, polli, conigli, le pezze di stoffa tessute dalle donne dei quali doveva fare il rendiconto mensile. Così si era limitato a informarsi ogni settimana sulla salute del ragazzo presso Alfonso, il segretario di Ramperto, al quale consegnava i tributi e la parte di raccolto che spettava alla Cattedrale. Aveva atteso il ritorno del figlio svegliandosi ogni giorno con la speranza di poterlo abbracciare di nuovo e addormentandosi ogni sera col doloroso pensiero che un’altra giornata era passata senza che avesse potuto riabbracciare il suo ragazzo. Gusberto era tornato solo tre anni dopo. Non era cresciuto molto. Anzi, sembrava ancora più minuto e più curvo di quando era partito. I suoi abiti e i suoi modi non erano più quelli di un ragazzino, anche se i vestiti non erano ancora quelli di un prete. Si era stabilito nella casa del vescovo senza nemmeno passare a salutare il padre. Carlo aveva saputo che Gusberto era a Genova perché glielo avevano detto i servi della casa di Ramperto. Gli avevano anche raccontato che il ragazzo trattava tutti come se fosse diventato il loro padrone e che persino la balia che gli aveva dato il latte veniva insolentita continuamente. Carlo, la domenica, era andato a messa in cattedrale come ogni settimana. Ma quella volta era uscito di casa con la speranza di incontrare il figlio e allo stesso tempo la paura che questi non volesse più avere a che fare con lui. Lo aveva scorto seduto in prima fila, elegante e austero. Aveva sperato che, dopo la messa, il giovane comparisse sulla soglia di casa. Lo aveva aspettato tutto il giorno seduto su una sedia, a fissare la porta. Era passata, così, la sesta ora e poi era venuta anche la decima senza che Gusberto si facesse vivo. Eppure l’abitazione di Carlo era proprio dietro la cattedrale di San Siro, nel Borgo fuori le mura, in una delle piccole casette a due piani, uno di pietra e l’altro di legno, attaccate l’una all’altra dove abitavano tutti gli uomini che lavoravano per il vescovo: il sarto, il calzolaio, il fabbro che aveva lì anche la sua officina, l’orafo che realizzava gli ostensori e i gioielli del vescovo, l’argentiere che costruiva i reliquiari. Era passata una settimana ed era venuto il giorno della consegna dell’uva raccolta nelle vigne poco distanti. Carlo si era presentato all’ora seconda col carro carico davanti alla casa del vescovo e, insieme all’attendente di Ramperto, inaspettatamente, era arrivato anche Gusberto che si stringeva nel suo mantello foderato di pelliccia per proteggersi dai primi freddi del mattino d’autunno. Stava tremando e Carlo aveva immaginato che fosse per l’emozione di rivederlo, ma presto si era accorto che era solo per via dell’umidità. All’uomo erano salite le lacrime agli occhi. Si era fatto avanti per abbracciare il figlio. Il giovane, invece, aveva fatto un passo indietro e lo aveva liquidato con un freddo saluto, e, senza mai interrompersi o permettere replica alcuna, gli aveva detto: <È desiderio del vescovo che andiate a casa di Consalvo il mercante di pece, sul colle, e che gli chiediate in sposa per me la settima figlia, quella muta. Se tenta di offrirvi la sesta, che non è ancora sposata, ditegli che voglio la settima e che sono disposto a rinunciare a dote ed eredità>. Poi aveva continuato, come se stesse recitando a memoria un sermone: <Il matrimonio si dovrà celebrare il giorno di San Filippo martire, vescovo di Eraclea, che fu bruciato vivo col suo diacono dopo la prigionia e la fustigazione durante la persecuzione di Diocleziano essendosi esso rifiutato di chiudere la chiesa e di consegnare tutti i libri>. Poi, Gusberto era andato via senza salutare, girando le spalle al padre e scivolando silenziosamente coi suoi calzari di stoffa sulle pietre che pavimentavano l’accesso al convento, vicino alla cattedrale, dove vivevano il vescovo e il suo seguito. Carlo era rimasto lì, con la bocca aperta a rivelare i pochi denti che gli erano rimasti, senza dire una parola, senza nemmeno riuscire a chiedere a suo figlio che giorno era esattamente quello di San Filippo e, cioè, tra quante lune si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio. Il mezzadro aveva impiegato qualche secondo a scuotersi dall’emozione di aver rivisto il figlio, dallo stupore per quello che gli aveva ordinato di fare. E adesso in lui prevaleva l’amarezza che, dopo i primi momenti, aveva lasciato posto alla rabbia sopita nei tre anni precedenti, lasciando, infine, di nuovo il passo alla più profonda tristezza. L’attendente di Ramperto si era avvicinato. Era un uomo molto alto, con le mascelle squadrate, il naso aquilino e gli occhi chiari che tradivano l’origine nordica. Aveva posato le sue mani grandi e lisce su quelle tozze, arrossate e ruvide del mezzadro. Poi gli aveva circondato le spalle con un braccio e a quel punto Carlo aveva alzato il volto verso il suo. Alfonso si era chinato e a bassa voce aveva detto al major di non preoccuparsi, che il vescovo sapeva quello che faceva e che tutto era stato deciso per il bene del ragazzo. Ramperto aveva destinato al giovane futuro prete la chiesa di Santa Maria delle Vigne, costruita “extra muros Janue apud rivum Suxilie ubi erant vinee” (fuori dalle mura di Genova vicino alle rive del torrente Suxilie dove erano le vigne), fatta costruire dal vescovo Sabbatino e, dopo che questi era morto, inaugurata proprio da Ramperto nel 916, proprio l’anno di nascita del suo pupillo. Non era una parrocchia e, quindi, il giovane non avrebbe avuto troppi fedeli dei quali preoccuparsi. Questo gli avrebbe lasciato il tempo per studiare, come lui desiderava. Con la chiesa, “Prima Aedes Januae Deiparae dicata”, la prima della città dedicata alla Madonna, Gusberto avrebbe ricevuto tutte le proprietà, in primo luogo le rinomate vigne. Ramperto avrebbe anche rinunciato ai tributi dovuti, ma a condizione che Gusberto si sposasse prima di prendere la strada del sacerdozio perché potesse avere quei figli che lui, ordinato quando aveva appena dieci anni, non aveva potuto avere. Il giovane aveva potuto scegliere la sua sposa tra le dieci proposte dal vescovo che aveva sguinzagliato per l’occasione i suoi servi e le sue spie per sapere tutto delle candidate. Ramperto aveva escluso le figlie dei mercanti più ricchi, dei proprietari delle navi, dei proprietari di vasti appezzamenti di terreno che non le avrebbero mai date in sposa a un giovane di umili origini. Aveva anche escluso le più povere, le contadine. Erano rimaste, appunto, dieci ragazze, tutte tra i 12 e i 17 anni, tra le quali la figlia del commerciante di cera e candele e la figlia dell’oste della ripa. Ci sarebbe stata anche la figlia del commerciante di pece, che aveva una sorella muta più piccola di lei di un anno. Ma la gente diceva che non fosse più vergine e che qualche anno prima avesse addirittura abortito. Gusberto aveva tentato di opporsi alla volontà di Ramperto. <All’Abbazia di Bobbio ho studiato che i sacerdoti dovrebbero vivere in castità, in case diverse dalle mogli sposate prima del giuramento a Dio> aveva detto, mostrando tutto il suo stupore per il fatto che il Vescovo non conoscesse questa regola. E Ramperto si era spazientito. Non sopportava che il ragazzo gli parlasse con quell’aria da maestrino che il giovane usava con la servitù da quando era tornato da Bobbio. Aggrottando le sopracciglia e alzando il tono della voce aveva risposto: <Quello che la Chiesa vuole, ragazzo mio, in questa città sono io a deciderlo. E io decido che tu debba avere dei figli che io possa tenere sulle mie ginocchia come se fossero miei nipoti. Questo perché tu non possa pentirti da vecchio di essere stato un giovane senza amore e un adulto senza famiglia>. Era evidente che non avrebbe ammesso repliche. Il giovane lo aveva capito e quindi aveva velocemente valutato quale fosse il minore dei mali. Perché certamente desiderava essere fedele a quanto gli austeri monaci gli avevano insegnato, ma non fino al punto da mettere in gioco la scalata al potere che aveva deciso di incominciare ormai tre anni prima. <Allora voglio la sorella muta> aveva detto addolcendo la voce, come per ricordare a Ramperto di essere il suo pupillo. Proprio per quella menomazione, il Vescovo non aveva preso in considerazione la ragazza. Se era muta, un motivo ci doveva pur essere. E se un motivo c’era, risiedeva con certezza nella Volontà di Dio di punire la sua famiglia per qualche orribile peccato commesso. Ma Gusberto non aveva inteso ragioni: <Padre mio – aveva spiegato al Vescovo -, se siete Voi a desiderarlo, rinuncio volentieri al valore della castità che i monaci mi hanno raccomandato e che a me è così cara, ma se volete evitarmi un imbarazzo, consentitemi di sposare una donna muta, incapace di pettegolare con le vicine e di conversare con loro, come tutte le donne fanno, dei particolari relativi dell’adempimento dei doveri coniugali. Siete Voi e non io a volere un matrimonio prolifico, mio Signore. E io per amor vostro farò tutto ciò che mi chiedete. Permettetemi, però, di tutelarmi da quello che una moglie col dono della parola potrebbe riferire ad orecchie indiscrete>. In realtà Gusberto aveva deciso che mai avrebbe toccato una donna, “essere impuro”. Per giunta i figli avrebbero potuto intralciare il suo cammino verso fama e ricchezza. Per questo, se proprio era obbligatorio che prendesse moglie, questa non doveva poter raccontare in giro che il loro era un matrimonio bianco. In fondo suo padre aveva ragione: Ramperto era già anziano e lui doveva sfruttare al massimo e senza perder tempo le opportunità che l’affetto del Vescovo gli offriva. Non appena il vecchio sarebbe morto, lui avrebbe buttato la moglie fuori di casa e avrebbe seguito la sua natura, che era quella di provare orrore per ogni donna.
Carlo si era fatto forza e, anche se si vergognava della propria ignoranza, era stato costretto a chiedere ad Alfonso quando cadesse il giorno di San Filippo Martire. Non avrebbe mai voluto deludere il figlio. L’attendente del vescovo gli aveva spiegato che era il 22 ottobre, ma il major aveva fatto una faccia sconsolata. Era chiaro che non aveva capito un’altra volta. Allora Alfonso aveva precisato: <Due giorni dopo il prossimo primo quarto di luna, cioè la prossima mezza luna crescente, come oggi>. Poi aveva sorriso e a guardarlo si capiva che provava compassione per quell’uomo ignorante ma onesto, semplice ma leale, che in tanti anni non aveva rubato al vescovo un uovo, nonostante la grande quantità di cose che gli passava per le mani. Invece Gusberto proprio non gli piaceva. Non lo sopportava nemmeno quando era piccolo e di questo si era sempre fatto una colpa. All’epoca questo fardello gli pesava sull’anima, anche perché non poteva dirlo al suo confessore, il vescovo, che amava così tanto quel moccioso taciturno, l’unico bambino che avesse mai visto che non dimostrasse almeno qualche volta un po’ d’allegria. Ormai, però, Alfonso non provava nemmeno più rimorso per quel sentimento che da fastidio era diventato vero e proprio odio e cresceva ogni giorno di più.

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Il padre di Gusberto era andato a cercare il mercante di pece nella sua casa bottega, appena fuori le mura, sul colle. Aveva superato la porta “Superana” senza entrare nella civitas e aveva continuato a costeggiare le mura fino a quando non aveva incontrato una ragazza che risaliva il viottolo sulla collina che dall’approdo secondario della città, nell’insenatura poco distante, portava proprio al colle. La giovane aveva gli occhi piccoli, ma Carlo non poté non notare che erano vivissimi. Aveva i fianchi larghi e un sorriso che, anche quello, splendeva. L’uomo le aveva chiesto dove fosse la casa di Consalvo e lei si era sistemata la cesta sulla testa in modo da poterla tenere in equilibrio con una sola mano, aveva allungato l’altra, aveva preso il polso dell’uomo e aveva cominciato a guidarlo. Così, senza dire una parola, lo aveva condotto fino ad una delle case addossate alle mura. Era proprio il deposito della pece. Le ragazza lo aveva lasciato lì facendogli segno di aspettare. Era salita su per una scala di legno dalla quale subito dopo era sceso un uomo tozzo e sporco, pieno di peli fin sulle orecchie, vestito di una tunica unta e strappata. I suoi passi pesanti pesanti facevano tremare i gradini. <Cosa vuoi da me, major> aveva chiesto in malo modo il mercante. Carlo pur colto di sorpresa dalla risposta scortese, non si era perso d’animo: <Sono qui a chiedere in moglie per mio figlio una delle tue figlie> aveva detto. <Se vai in cerca di dote, questo non è il posto giusto> aveva ribattuto Consalvo. <Mio figlio dice che tua figlia può rinunciare alla dote, se vuole> aveva tagliato corto il padre di Gusberto. Quella era musica per le orecchie del mercante che, senza nemmeno pensarci un attimo aveva risposto <Che se la prenda> e si era messo a gridare <Anna, scendi!!!>. Carlo non aveva fatto in tempo a chiarire che lui stava parlando della sorella muta. Anna, che stava ascoltando tutto dal piano superiore, si era affacciata dalle scale, ma sul suo volto era stampata un’espressione tutt’altro che entusiasta. Era una bella ragazza, coi capelli chiari e più magra rispetto alla sorella. Aveva 17 anni. Nessuno la voleva in moglie perchè tutti sapevano che qualche tempo prima era rimasta incinta senza mai essersi sposata. Nè lei aveva mai cercato un marito. Dopo che il padre del bambino aveva detto di volerla sposare, ma di non aver intenzione di rinunciare alla dote che gli sarebbe servita per mettere su una bottega da ceramista grazie alla quale contava di mantenere la nuova famiglia, il padre aveva caricato di peso Anna sul carro tirato da un bove e l’aveva trascinata in lacrime fino alla Valbisagno, dove viveva la vecchia fattucchiera che l’avrebbe fatta abortire. La sbobba di prezzemolo che la megera le aveva fatto bere aveva provocato ad Anna emorragie che sembravano inarrestabili. Inoltre la ragazza non smetteva più di vomitare anche se nello stomaco non aveva più nulla. Quando Consalvo era fuori per consegnare un carico di pece, la moglie Maria, preoccupata, aveva chiamato una sua conoscente che sapeva curare con le erbe. La donna aveva consigliato cataplasmi di crusca, acqua e senape e un decotto di assenzio con miele, ma in cuor suo disperava che la ragazza potesse salvarsi. Appena Consalvo aveva saputo che la moglie aveva chiesto aiuto a un’estranea l’aveva quasi ammazzata picchiandola con un bastone. Aveva sperato che il veleno, col figlio e col sangue che Anna continuava a perdere, portasse via anche la ragazza che invece, miracolosamente, si era salvata. Come il padre aveva previsto, la curatrice amica della moglie non aveva saputo tenere il segreto. La voce di quella gravidanza impura si era diffusa in fretta e in molti avevano tolto il saluto all’intera famiglia, oltre a smettere di comprare presso la bottega. Anche il monastero di San Siro, che faceva capo alla Cattedrale, non acquistava più la pece bruzia per impermeabilizzare le botti. Nessuno aveva più chiesto in moglie Anna, anche perché ormai tutti sapevano che il padre non era disposto a concederle dote ed eredità. Tre delle sue cinque sorelle di Anna e Gismunda erano morte ancora giovani. Una, invece, si era sposata e, siccome il marito l’amava moltissimo e aveva già un’avviata attività di maniscalco, aveva accettato di buon grado le condizioni del futuro suocero pur di potare via la ragazza dall’inferno in cui viveva. Gismunda era muta e, immaginando che non si sarebbe mai maritata, Consalvo l’aveva già costretta a sottoscrivere un atto in cui, davanti a un notaio, rinunciava a tutto in cambio dell’impegno del fratello a mantenerla. Siccome non sapeva leggere e scrivere, come tutta la sua famiglia, era bastato un segno d’assenso col capo al momento del perfezionamento dell’atto. La croce tracciata dalla giovane sul foglio era stata convalidata in fretta. Per Anna doveva ancora decidere il da farsi, sperando di risparmiare i soldi del notaio. La ragazza era molto bella e qualcuno doveva pur volerla prima che diventasse troppo vecchia. Ora che finalmente il pretendente si era fatto avanti, sperava di ottenere moneta sonante. Senza mezzi termini, chiese soldi a Carlo. Ora, il major, imbarazzato, non sapeva come dire ad Anna e a suo padre che il figlio voleva sposare Gismunda e non la sorella maggiore. Gusberto l’aveva avvertito che il padre avrebbe tentato di imporre la figlia più grande ma lui adesso non sapeva cosa inventare per togliersi d’impaccio. Tuttavia gli facevano più paura il figlio e il vescovo di quanto gliene facesse Consalvo. Così si era schiarito la voce e aveva detto tutto d’un fiato: <Mio figlio vuole sposare Gismunda alla prossima mezza luna crescente e manda a dire che qualsiasi cosa diciate la sua offerta vale solo per lei e per nessun’altra> e poi, a mezza voce, aveva aggiunto <Mi spiace davvero, Anna è una bella ragazza…>. Stava per aggiungere che d’altro canto suo figlio non conosceva né l’una né l’altra e certo non cercava moglie per la sua bellezza, ma si era morsicato la lingua perché non capiva la scelta di Gusberto e quindi non avrebbe saputo come spiegarla. Consalvo aveva risposto secco: <E allora non se ne fa niente>. In fin dei conti, pensò, la questione dell’eredità della muta era già stata risolta. Era vero che dandola in moglie non avrebbe più dovuto mantenerla, ma era vero anche che gli sarebbero mancate due braccia e che si sarebbe dovuto fare carico lui stesso del lavoro che la figlia faceva al magazzino, quello più pesante. <Sappi che il “no” che stai dicendo lo dici al vescovo – aveva rilanciato Carlo, facendo un disperato tentativo di recuperare la situazione -. Mio figlio è sotto la sua protezione e sarà lui a sposarlo e ad ordinarlo prete, subito dopo il matrimonio>. All’energumeno spuntò un sorriso che pareva un ghigno: gli erano venuti in mente tutti i vantaggi che poteva ottenere da quella unione. Aveva pensato, quindi di giocare al rialzo: <E allora voglio parlare direttamente col vescovo> aveva detto. A Carlo non era restato che tornare sui propri passi, presentarsi al monastero di San Siro, bussare tremante al portone principale e chiedere dell’attendente di Ramperto. Alfonso non lo aveva fatto aspettare molto e in capo a qualche minuto lo aveva raggiunto nel chiostro. Mentre il major gli riferiva l’accaduto, era passato di lì Gusberto e Carlo aveva dovuto parlare davanti a lui. Il figlio avrebbe voluto liberarsi dell’attendente del vescovo, ma sapeva che Ramperto non avrebbe apprezzato. Alfonso era il suo braccio destro da tanti anni e, nonostante Gusberto avesse provato in ogni modo a metterlo in cattiva luce, non c’era mai riuscito. Per quanto lo detestasse, quella volta, aveva dovuto ammettere che la sua idea era la migliore: il vescovo avrebbe pagato l’ammissione di Anna nel convento Benedettino di San Salvatore a Brescia, recentemente dedicato a Santa Giulia e lei sarebbe così sparita dal mondo terreno e dalla linea ereditaria del mercante. Le spie di Alfonso avevano indagato sulla famiglia della ragazza e avevano parlato col notaio che aveva ratificato la rinuncia all’eredità da parte della muta. Il prete sapeva che il mercante di pece si sarebbe opposto tentando di piazzare la prima figlia non sposata e aveva già preparato le contromisure del caso.
Carlo era tornato da Consalvo portando la proposta di Alfonso e il mercante aveva rilanciato chiedendo di essere riammesso come fornitore del convento e delle parrocchie. L’“affare” era stato concluso secondo i termini imposti dal padre della futura sposa e si era fissata la data del fidanzamento nel giorno dell’ultimo quarto di luna, cioè nella notte della mezzaluna calante. Era il giorno di Santa Comasia, che oggi è considerata la patrona della pioggia. Era forse per questo che pioveva a dirotto quando Gismunda, il padre, la madre, il fratello, la sorella sposata col marito e i loro figli, erano scesi lungo le mura ed erano entrati nella città passando dalla porta Superana per poi percorrere a piedi il Canneto e quindi svoltare a destra e uscire dalla porta di San Pietro e, infine, attraversare i campi per arrivare al Borgo e alla cattedrale dove tutti erano arrivati bagnati fradici e sporchi di fango. Le campane della chiesa suonavano l’ora prima. Gismunda, intirizzita, si stringeva in un vecchio mantello rattoppato già appartenuto al padre. La frangia le gocciolava sul volto mentre la lunga treccia era nascosta sotto il cappuccio. Tremava di freddo e di paura. L’intero gruppo puzzava come una mandria di animali bagnati. A Gusberto quel fetore rivoltava lo stomaco. Per questo per tutta la cerimonia si era tenuto a distanza, quasi non fosse lui il promesso sposo. Mentre Ramperto leggeva il giuramento dei fidanzati, il giovane tamburellava con le dita secche sulla spalliera dell’inginocchiatoio. Quando era venuto il suo turno aveva detto un sì secco e sbrigativo, come quello di un militare che risponde a un ordine. E quando Ramperto aveva letto la frase che prometteva Gismunda al suo pupillo, lei aveva assentito con la testa e per tutti fu abbastanza per sciogliere quell’assemblea poco affollata alla quale avevano partecipato solo Carlo, Alfonso, la famiglia di Gismunda e un paio di preti come testimoni. L’ora e il giorno non erano certo quelli adatti per una grande festa. Era pesto e tutti i contadini, stavano raggiungendo i campi sotto la pioggia. Le botteghe di mercanti e artigiani non erano ancora aperte. Gusberto aveva detto che la cerimonia doveva essere semplice, sobria, senza quelle concessioni alla festa pagana che erano in uso sia tra i ricchi, i quali organizzavano danze e banchetti, sia tra i poveri che si limitavano a qualche bicchiere di vino bevuto insieme e, se la stagione lo consentiva, si allargava a una intera giornata di balli popolari nella piazzetta più vicina o in un campo fuori dalle mura dove ciascuno portava qualcosa da mangiare o da bere. La cerimonia non si era svolta in cattedrale, ma nella cappella del monastero dove il fuoco delle fiaccole non bastava a scaldare le ossa di Gismunda che era rimasta fasciata nel suo mantello maleodorante. Qualche volta aveva girato il volto per sbirciare il suo futuro marito. Lui, invece, non aveva staccato gli occhi dal vescovo. Nemmeno una volta si era girato verso di lei. La futura sposa si era chiesta perché mai Gusberto l’avesse scelta. Lei non l’aveva mai visto, nemmeno le poche volte che era stata a messa in cattedrale, ed era probabile che nemmeno lui l’avesse mai vista. La sua famiglia non era ricca e quindi non si trattava di un matrimonio di convenienza. Gismunda non sapeva opporsi all’ordine del padre, ma avrebbe voluto gridare che no, quell’uomo non lo voleva come marito e che, invece, voleva il forte Rachis, col quale, di nascosto dal padre, aveva scambiato qualche carezza e persino un timido bacio. Gusberto era più basso di lei, magro e curvo e inoltre aveva uno sguardo gelido come la galaverna che d’inverno spezza i rami degli alberi. Di colpo si era sentita spezzata proprio come uno di quei rami. Capiva che la sua giovinezza finiva lì, in quel preciso momento. Che non ci sarebbe stato più spazio per i giochi con i coetanei e nemmeno per i pomeriggi d’estate passati a raccogliere fiori con le sorelle. Non ci sarebbe più stato posto per Rachis, nemmeno nei suoi sogni di ragazza onesta. Di colpo la luce che aveva sempre avuto negli occhi si era spenta come una candela sulla quale si accanisce uno spiffero freddo che si fa strada nel drappo di stoffa che chiude la finestra, lo alza e fa tremare la fiammella prima di ucciderla definitivamente. Era assorta in quei pensieri quando il padre l’aveva scrollata per le spalle e le aveva detto che era l’ora di tornare a casa a lavorare. Gusberto era già sparito dalla cappella. A Gismunda era venuto in mente solo in quel momento che alla cerimonia non aveva partecipato Anna. Pensandoci bene non l’aveva vista in casa quando si era alzata. E dire che lei, il padre, la madre, il fratello e la sorella dormivano tutti nello stesso giaciglio nell’angolo della casa più caldo. Forse stava male. Forse era andata a passare la notte dalla zia che entrambe amavano tanto. L’anziana donna era cagionevole di salute e camminava a fatica. Per questo qualche volta le sorelle dormivano con lei per tenerle compagnia e assisterla. Gismunda aveva pensato che era davvero strano che la sorella non l’avesse accompagnata al fidanzamento perché erano molto legate e sapevano tutto l’una dell’altra. Per questo aveva accelerato il passo precedendo il padre e la madre che arrancavano sulla strada per risalire al colle, come la sorella e il cognato che avevano preso in braccio i due figli perché i piccini non riuscivano a camminare nel fango della strada del Canneto dove l’acqua caduta dal cielo scorreva ormai come nel letto di un fiume. Nonostante fosse scoccata l’ora terza, le strade erano deserte sotto la pioggia che non aveva mai smesso di cadere. I vestiti che Gismunda aveva addosso pesavano come fardelli carichi esattamente nello stesso modo in cui sul suo cuore pesava il fatto di essere stata scelta per il matrimonio al posto della sorella. Forse Anna si era offesa ed era arrabbiata con lei. <Avrei dovuto oppormi – aveva pensato la ragazza -, mio padre mi avrebbe picchiata fino ad ammazzarmi, ma sarebbe stato meglio che perdere l’affetto di mia sorella. Dirò ad Anna che non mi importa di sposarmi e che nemmeno lei deve sposare quel ragazzo perché ha negli occhi la cattiveria. Domani Anna partirà per il convento e non la rivedrò più. Per tutta la vita avrò il rimorso di averle fatto del male, anche se non ho deciso io di sposarmi, anche se l’uomo al quale mi sono promessa mi fa paura>. Era arrivata a casa col cuore in gola, ancora più sporca e bagnata di quando aveva raggiunto il convento di San Siro e aveva trovato i pescatori davanti alla soglia. Avevano depositato una rete dalla quale usciva il braccio di una donna. Immediatamente una fitta lancinante le aveva trafitto il cuore. Si era avvicinata correndo prima che qualcuno riuscisse a fermarla e aveva visto ciò che temeva. Nella rete c’era quello che restava di Anna.

©Monica Di Carlo. Tutti i diritti riservati. Vietati la riproduzione anche parziale del testo e qualsiasi uso non autorizzato dall’autore

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