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ORRORE PRIMO CAPITOLO
II CAPITOLO
III CAPITOLO
IV CAPITOLO
V e VI CAPITOLO
VII CAPITOLO
Alfonso era estenuato. Avrebbe voluto dormire, adesso, ma non era ancora venuto il momento. Aveva chiamato Demetrio perché gli mandasse i suoi sei uomini più prestanti armati sia di spada, sia di mazza. Che uscissero con i cavalli bardati di tutto punto, come se dovessero andare in guerra. Voleva che facessero impressione, che gli autori degli omicidi, che fossero o non fossero gli amici di Gusberto, venissero a sapere che la Cattedrale aveva cominciato a prendere le cose molto sul serio. Per questo si era vestito anche lui con gli abiti migliori e aveva indossato le insegne del Vescovado. Quindi si era legato la spada alla cintura ed era montato su Nerone, il cavallo più imponente e massiccio, anche se non il più bello, della scuderia del convento. Alla guida della pattuglia si era avviato verso il Castrum. Al passaggio delle guardie, annunciato dal tintinnare delle armi e dal rumore degli zoccoli dei sette cavalli, la gente entrava nelle botteghe e nelle case e si ritraeva dalle finestre. Nella squadra era finito casualmente anche il soldato che la sera prima aveva partecipato alla riunione nella casa di Ronalda. Sembrava cadere dal sonno, proprio come l’attendente del Vescovo perché, proprio come lui, non aveva dormito. Alfonso aveva pensato che quella era la giusta occasione per terrorizzarlo e per lanciare messaggi al suo gruppo tramite lui. Per questo, una volta arrivato alle ricche case che si affacciavano sul mare dallo sperone di roccia, aveva lasciato il soldato all’inizio della strada, da solo, raccomandandogli di non muoversi e senza affidargli alcun compito di sorveglianza. Voleva che avesse chiaro che era stato sganciato dal gruppo senza alcun motivo se non quello della diffidenza in modo che potesse sorgergli il sospetto di essere stato scoperto. Quello aveva provato a protestare, ma il prete lo aveva fatto tacere con un solo sguardo. Quindi con gli altri cinque uomini aveva proseguito la strada ed era arrivato a metà della discesa. Lì aveva trovato la vedova e i suoi figli, che nel frattempo, avvertiti dai servi del padre,erano accorsi dalle loro case ed erano accanto al cadavere del mercante che giaceva proprio davanti a casa nella pozza del suo stesso sangue ormai in parte raggrumato. Chi aveva voluto toglierlo di mezzo lo aveva ucciso al mattino presto, quando era uscito da solo per scendere al porto. Quale peccato aveva mai commesso? Aveva rubato? Non aveva santificato le feste? Adorava un altro dio? La lettura dell’esecuzione fu fornita ad Alfonso da quello che gli avevano detto i figli della vittima: aveva detto falsa testimonianza. Questo sosteneva il collega che lo aveva denunciato, guarda caso uno di quei mercanti che la sera precedente avevano partecipato alla riunione di preghiera a casa di Ronalda. La questione riguardava la cessione di un carico affondato insieme alla nave che lo trasportava. Secondo il suo accusatore, il mercante assassinato ne aveva chiesto il pagamento anche se la transazione era avvenuta quando ormai tutte le merci erano colate a picco. L’uomo ucciso quel mattino aveva giurato e spergiurato che la transazione era stata conclusa, come di consuetudine con una stretta di mano, quando la nave stava ancora veleggiando verso Genova. Secondo il contendente, invece, il carico era stato venduto e pagato quando l’imbarcazione era già sul fondo del mare.
Il segretario di Ramperto, accommiatatosi dalla famiglia in lutto, aveva mandato gli armati a prelevare il secondo mercante. <Non andate tanto per il sottile – aveva raccomandato loro -. Legatelo dietro ai cavalli e trascinatelo a passo d’uomo attraverso la città fino alla cattedrale. Badate bene, però, a non fargli male. Quando arriverete, gettatelo in guardina. Io arriverò dopo l’ora dei vespri>. Quindi da solo era risalito verso la piazza grande e nel cammino aveva recuperato la guardia che aveva lasciato a metà strada. Gli aveva comunicato, parlando come se stesse appena facendo quattro chiacchiere per occupare il tempo necessario per ritornare alla cattedrale, che aveva deciso l’arresto del mercante <perché gli indizi a suo carico sono davvero pesanti>. E mentre lo diceva, pensava che solo un folle avrebbe mandato a uccidere chi aveva denunciato ben sapendo che sarebbe stato il primo indiziato. O non era lui il colpevole o era così pazzo da pensare di farla franca. Gli venne il dubbio che l’omicidio del mercante fosse solo una provocazione e gli balenò anche l’idea di essere pienamente caduto nella trappola di chi voleva depistare le indagini. L’arresto del collega dell’uomo assassinato, persona onesta e timorata di Dio, primo e unico indiziato del delitto, poteva essere la scintilla della rivolta e chissà su quanti uomini potevano contare gli amici di Ramperto. Questo lo avrebbe scoperto presto. Era arrivato al convento quando stava finendo l’ora quarta, Alfonso aveva detto di rinforzare la guardia alla cattedrale e alle prigioni. Ramperto non era ancora tornato. In tempi normali il suo segretario lo avrebbe raggiunto per difenderlo nel caso in cui qualcuno avesse tentato di assalirlo per liberare il prigioniero e quindi prendere il potere sulla città, invece non pensava ad altro che ad essere puntuale al trivio del bosco dove doveva incontrare la prostituta. Non aveva, però, completamente perso il senso delle cose. Almeno, non ancora. Così prima di andare a lavarsi, a rasarsi per non apparire ad Adelaide in quello stato e soprattutto a cambiarsi d’abito perché così bardato avrebbe dato troppo nell’occhio, aveva mandato il comandante delle guardie con una scorta incontro al Vescovo affidandogli una lettera in cui, sommariamente, raccontava ciò che era successo e i suoi timori e quindi aveva disposto che tutti i soldati in riposo rientrassero in servizio e si concentrassero armati fino ai denti all’interno del convento, possibilmente senza farsi notare troppo. Sapeva che la guardia che apparteneva alla setta di Gusberto avrebbe saputo delle sue disposizioni e avrebbe avvertito gli altri. Questo gli concedeva tempo. Perché il gruppo degli oltranzisti religiosi, nel caso in cui avesse voluto attaccare le prigioni, avrebbero saputo di non poter contare sull’effetto sorpresa e avrebbe meditato meglio un eventuale assalto. Poi era andato nella sua stanza e si era preparato per incontrare Adelaide così come avrebbe fatto un adolescente al suo primo appuntamento. In fin dei conti non aveva mai avuto, in precedenza, esperienza di affari di cuore e tantomeno di sesso. In quel momento si sentiva proprio come un ragazzino che non faccia i compiti affidatigli dal mastro di bottega per scappare a vedere la propria bella fuori le mura e tutto questo senza nemmeno un briciolo di senso di colpa. Nel messaggio per Ramperto aveva scritto che sarebbe uscito per effettuare alcune indagini, sperando, senza confidarci granché, che il suo superiore ci credesse. Sapeva che si stava esponendo molto, sapeva di rischiare, ma questo gli regalava un brivido in più. Aveva quasi il piacere di trasgredire e anche quella per lui era una novità eccitante. Il bisogno di vedere Adelaide, di sentirsi addosso il suo profumo, di parlare con lei, di baciarla era talmente forte da far scivolare tutto in secondo piano. Aveva un unico pensiero, quello di possederla di nuovo, di provare ancora le emozioni che gli avevano stravolto la vita.
Era arrivato al luogo dell’appuntamento a cavallo, ignorando ogni buona norma di prudenza. Aveva legato Nerone davanti ad un albero davanti alla casa ed era entrato sapendo bene che Adelaide non poteva ancora essere arrivata. Si era versato un bicchiere di vino e lo aveva bevuto in fretta perché aveva sete. Poi se ne era versato un altro e si era seduto su una panca poggiando sull’asse del coperchio, accanto alla brocca e al bicchiere, i piedi con tutte le scarpe. Si era sistemato con la schiena contro il muro e aveva reclinato la testa all’indietro. E meno male che la donna era arrivata anche lei in anticipo perché se non fosse stato così si sarebbe completamente ubriacato e in capo a qualche minuto si sarebbe anche addormentato.
Adelaide aveva aperto la porta ed era entrata. Con la sua bellezza prorompente. Col profumo della sua pelle e dei suoi capelli. Con le labbra, tinte di rosso minio per la prima volta da quando l’aveva incontrata. Con l’abito più scollato che avesse, un capolavoro di seduzione. Era era volato via in fretta, non appena la donna si era chiusa la porta alle spalle, senza che Alfonso avesse nemmeno il tempo di dirle “buongiorno”. Adelaide era nuda, salvo, ovviamente, la fascia sulla fronte. Completamente, perché aveva tolto anche i calzari e si era inginocchiata davanti a lui, gli aveva preso una mano, gliela aveva dolcemente accarezzata con la punta della lingua dal polso alle punte delle dita passando per il palmo. Alfonso aveva avuto un sussulto, aveva completamente perso la testa. Lei gli aveva chiesto se fosse stanco, ma lui non l’aveva nemmeno ascoltata. Il prete aveva dimenticato tutto quello che doveva raccontarle sul nuovo assassinio e sulla riunione alla quale aveva assistito la notte precedente. Le ripeteva solo <Sei bellissima>. Mentre lo diceva, si spogliava incespicando goffamente nei calzari che cercava di togliersi. Poi, era rimasto ingabbiato nella tunica per qualche secondo prima di riuscire faticosamente a liberarsene. Aveva capito in quel momento per la prima volta cos’è l’istinto, cos’è la passione quando ti lega i gesti e il cervello. Aveva avuto appena il tempo e la lucidità di pensare che almeno un milione di volte era stato troppo severo, in confessione, con chi pieno di vergogna gli spiegava di aver ceduto al peccato di lussuria. Ormai anche lui totalmente nudo, in completa erezione e senza vergogna alcuna, aveva girato attorno alla prostituta coprendola di baci. Quando le era arrivato alle spalle, lei si era d’improvviso, con gesto consumato, piegata sul tavolo che aveva davanti, appoggiandosi alla superficie con i gomiti e gli avambracci e allargando le gambe per cercare una posizione stabile. Alfonso non era stato troppo a pensare con quanta facilità la prostituta si offriva a lui. Infondo, non aveva avuto altre donne e non poteva comparare la pudicizia di una novella sposa o di una madre di famiglia alla sfrontatezza di una professionista del sesso.
Quando lui si preparava a penetrarla, Adelaide aveva girato il viso all’indietro, sostenendosi con entrambe le braccia tese e appoggiate sui palmi delle mani, e gli aveva detto <Più su>. E siccome lui non sembrava capire, aveva rinunciato al sostegno di una delle braccia e aveva allungato una mano dietro la schiena per guidare il membro dell’amante sussurrando <così ti piacerà di più>. Alfonso, stanco e ubriaco, non aveva avuto nemmeno il tempo di ragionare, di capire che quello che gli veniva offerto era un rapporto contro natura, un peccato mortale. Sapeva solo che desiderava provare le stesse sensazioni delle quali si era inebriato il giorno precedente, essere una sola cosa con quella che era diventata la sua unica ragione di vita. Lo aveva pensato senza rendersi conto che in quel preciso momento aveva smesso di disciplinare la coabitazione di Dio ed Adelaide dentro il proprio cuore. La donna aveva sfrattato l’Altissimo con un solo gesto e senza troppa difficoltà.
Se mai fosse stato possibile, quel giorno il piacere era stato ancora più intenso e l’emozione era diventata quasi pianto. L’amore si era trasformato nello stesso istante in profondità abissale ed altezza vertiginosa, tanto che Alfonso perse ogni controllo e l’amplesso si consumò nel tempo di un Pater Ave e Gloria. Era stato in quel preciso momento che Adelaide aveva capito di aver vinto la prima vera battaglia col dio di Alfonso, quel dio che l’aveva privata della dignità, che l’aveva fatta battere dai suoi servi, che l’aveva sottoposta alle più crudeli e disumane atrocità.
Alfonso, tanto era travolto dalla passione che aveva impiegato un po’ di tempo a recuperare lucidità e a rendersi conto che era andato oltre ancora una volta. Stavolta, ben oltre quello che era disposto a perdonarsi. Pensava di aver fatto del male ad Adelaide e allo stesso tempo di aver offeso Dio. La donna lo aveva compreso e si era affrettata a rassicurarlo, gli aveva detto che quello che era successo era stata lei a volerlo. <Tu pensi di aver fatto un’azione riprovevole, ma io sono felice e tu sei felice. Abbiamo fatto forse del male a qualcuno? Pensaci, Alfonso! Ragionaci!>. E lui ci aveva ragionato ed era arrivato alla conclusione che in fin dei conti il peccato stava già nel loro rapporto e, a monte, nell’essersi innamorato. Inoltre, Adelaide non poteva avere figli e per questo qualsiasi loro unione carnale era un rapporto contro natura perché era comunque “disperdere il seme”. Dopo aver permesso che l’alibi strutturasse nella sua mente una sorta di assoluzione, il prete non si sentiva disposto a rinunciare a quell’amore che gli faceva raggiungere vertici di piacere che mai da ragazzo aveva provato con la masturbazione e che si era insinuato in ogni angolo del suo cervello, tanto da fargli commettere azioni imprudenti come quella di lasciare il Vescovo senza la sua protezione. Quello che aveva detto la sua compagna, si disse in fretta, per evitare che la razionalità prendesse il sopravvento, era vero: non stavano facendo alcun male ad altri. Certo, avrebbe dovuto distinguere tra etica e morale disse dentro di lui la vocina del sacerdote rigoroso che era e che faceva ogni sforzo per mettere a tacere. Sapeva benissimo che se avesse continuato il percorso del ragionamento avrebbe dovuto dare torto alla sua donna e a se stesso. Smise quindi di pensare e rimase a godere delle carezze di Adelaide, del calore del suo corpo, del suo sorriso, del suono della sua voce. Dopo che lei gli aveva raccontato di un buon affare che aveva chiuso, Alfonso aveva cominciato a parlare del quarto assassinio e aveva raccontato anche di quello che era successo la sera prima e dei suoi sospetti nei confronti del gruppo degli “ortodossi”. Aveva spiegato alla donna che temeva tentassero di rovesciare il vescovo Ramperto per instaurare un regime più rigidamente legato agli usi della religione e, soprattutto, direttamente guidato da loro, ovviamente sempre sotto l’egida dell’imperatore Berengario al quale sarebbe importato poco chi gli versava il dovuto se i tributi continuavano ad arrivare puntuali. La donna aveva risposto con una frase di Aristotele. <È necessario dire che c’è democrazia quando i liberi abbiano il potere, ed oligarchia quando siano i ricchi a possederlo. Ma accade che i molti siano pochi: tanti, infatti, sono i cittadini liberi, ma pochi quelli ricchi[1]>. E quindi aveva aggiunto <Importa molto quali siano i “pochi ricchi” che comandano?>. Ramperto aveva risposto che importava eccome e aveva usato lo stesso Aristotele per sostenere che se era pur vero che l’aristocrazia, anche se era da considerarsi migliore della tirannia, degenerava sempre in oligarchia, era anche vero, questa volta secondo il suo personale giudizio, che un’oligarchia non equivalesse l’altra. Se per il filosofo il governo migliore era quello della classe media agricola, capace, secondo lui, di garantire meglio l’equilibrio dei ricchi che invece vogliono mantenere l’ineguaglianza e dei poveri che al contrario vogliono sovvertire lo stato delle cose, per Alfonso a comandare meglio era certamente chi sapeva usare la moderazione in senso assoluto come canone di governo. Certo, ci sarebbe stato molto da discutere, ma in definitiva il governo di Ramperto garantiva a tutti gli uomini liberi di poter lavorare la terra distribuita equamente in concessione, di fare affari, guadagnare e migliorare la propria posizione e quella della propria famiglia. Le tasse erano usate non solo per arricchire le casse della cattedrale, ma anche per sostenere i poveri. Adelaide aveva dovuto ammettere che, rispetto a Pavia, l’unica città che conoscesse quanto Genova, il governo qui era più assennato, anche se non trovava giusto che fosse un vescovo a regnare. <Non sto parlando di Ramperto, che, come dici tu, è illuminato – aveva detto la donna per rassicurare Alfonso, che appariva in quel momento prontissimo a contraddirla dai sensi di colpa nei confronti del suo Vescovo -, ma della Chiesa in senso lato. Se davvero avessero il sopravvento Gusberto, Ronalda e i loro amici preti, quale genere di futuro pensi potrebbe avere la gente di questa città? Questa non è un’aristocrazia e nemmeno un’oligarchia, ma una teocrazia. Chiunque sia il più forte può strappare agli altri il potere e governare nel nome di Dio e a nome di Dio. Può decidere anche cosa Dio vuole e imporlo a tutti. Nelle nostre discussioni noi stessi interpretiamo e usiamo a nostro favore questa o quell’opera di Agostino o di Aristotele. Anche ammesso che avessero ragione, anche se, come tu dici, nessuna idea dell’uomo è giusta a priori semplicemente perché viene da quell’essere fallibile che è l’uomo, le interpretazioni, permettono di distorcerle e a volte persino di ribaltarle. Io non so se nelle scuole monastiche vi fanno leggere solo i vostri libri sacri e qualche filosofo antico o se invece, per caso, potete leggere anche filosofi più attuali. A me è capitato recentemente, per uno strano caso della vita, di prendere in mano un libro di Alpharabius. Lo so, è un infedele, nel senso in cui lo intende la tua chiesa. Ovviamente era un libro tradotto e non so quanto fosse fedele all’originale>. Alfonso avrebbe voluto chiederle dove aveva avuto la possibilità di leggere l’opera di un autore che, non essendo cristiano, era proibito, ma non voleva interrompere il flusso del suo ragionamento perché conoscere i pensieri di Adelaide era per lui eccitante almeno quanto condividere con lei il piacere. <Certamente ricordi che Platone, nella sua “Repubblica”, dice che chi governa deve essere virtuoso, nel senso che deve saper utilizzare le proprie capacità dell’animo per il raggiungimento del bene comune – aveva ripreso la donna -. Più o meno Alpharabius dice la stessa cosa. Per Platone chi governa deve essere “il filosofo” così come per il pensatore arabo. Ma per quest’ultimo deve essere anche un profeta, una guida, un califfo, un imam, come lo chiamano loro, capace di interpretare criticamente la Legge che, nel caso specifico, è il Corano mentre per te è concentrata nel Nuovo e nel Vecchio Testamento. E questo perché per lui, come per il filosofo greco, alla verità si arriva attraverso la filosofia, che lavora proprio per “dimostrare la verità” e vincola la ragione. Ma siccome il popolo ha capacità limitate, lo dice Alpharabius e io lo condivido, allora serve una doppia strada per raggiungere la verità, una strada che possa percorrere anche il volgo. E questa strada è la religione. Lui non parla strettamente della religione islamica e, anzi, ammette dichiaratamente la possibilità che possa essere un’altra religione. Ecco la legittimazione della necessità della guida religiosa di una città o di uno stato per consentire a tutti di raggiungere verità e felicità. Se viene, però, a mancare il primo gradino della scala che consente di raggiungere il culmine del ragionamento, e cioè che la guida sia un filosofo, una persona che ha amore per il sapere, converrai con me che frana tutto. Insomma, la teocrazia, che altro non è se non un’aristocrazia di sacerdoti, diventa buon governo se i sacerdoti sono anche filosofi e quindi ricercano la verità e la felicità per tutti, ma si degrada in oligarchia se non sono filosofi e cercano solo la propria felicità>. Alfonso, sbalordito dalle considerazioni di Adelaide, si era trovato come raramente accadeva a corto di argomentazioni per contrastare, magari solo per fini accademici, tutto il ragionamento. <Chi sei veramente?> le aveva chiesto sbarrando gli occhi. E lei aveva risposto <In passato soltanto una prostituta che tra i suoi peccati annoverava anche quello del desiderio dell’eccellenza perversa in materia di filosofia e teologia, Alfonso. Adesso, temo, solo una donna innamorata alla quale la ragione si va offuscando perché invece di continuare a cercare la verità, che è felicità in senso completo e assoluto, cerca solo la propria felicità contingente>. Il prete sarebbe rimasto lì ad ascoltarla per ore, sorridendo al pensiero che entrambi si erano inoltrati in discorsi tutt’altro che romantici in quella situazione così particolare, entrambi nudi e abbracciati. Sapeva, invece, di aver rubato una quantità di tempo irragionevole ai problemi che doveva affrontare e di doversi alzare e vestire in fretta, di dover salire in sella al cavallo e di dover percorrere la strada che lo avrebbe riportato in cattedrale. Aveva detto ad Adelaide che si sarebbero visti lì il giorno seguente. Lei gli aveva risposto che se non l’avesse visto non si sarebbe preoccupata né gliene avrebbe fatto una colpa perché sapeva bene che il suo ruolo poteva impedirgli di tener fede alla promessa, anche se il suo cuore si sarebbe fermato fino a quando non lo avesse rivisto. Alfonso, guardandola mentre andava via tra i suoi due “angeli custodi”, l’uno nero e l’altro bianco, aveva pensato che al mondo non potesse esistere un’altra donna come lei e si era arreso al fatto che ogni appello alla sua proverbiale razionalità era ormai diventato inutile.
©Monica Di Carlo 2015 – Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’autore.
[1] Aristotele, “Politica”
[…] VII CAPITOLO – Della morte del mercante bugiardo e della “Politica” di Aristotele […]
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