Orrore (Genova 935)

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X CAPITOLO – Dell’omicidio in canonica

una-breve-retrospectiva-de-asesinatos-satanicos-cometidos-en-los-ultimos-30-anos-body-image-1435097148Qui il X capitolo e i capitoli precedenti in Pdf
ORRORE PRIMO CAPITOLO
II CAPITOLO
III CAPITOLO
IV CAPITOLO
V e VI CAPITOLO
VII CAPITOLO
VIII CAPITOLO
IX CAPITOLO
X CAPITOLO

Capitolo X

(Dell’omicidio in canonica)

 

Quando Ramperto era arrivato a bussare alla porta del suo segretario, Alfonso, nonostante fosse già passata l’ora di pranzo, era ancora sprofondato nel suo letto, in uno stato di torpore profondo. Il Vescovo si era accorto immediatamente delle sue condizioni e gliene aveva chiesto ragione. Lui aveva raccontato quello che gli era accaduto senza omettere alcunché. Condividere con Ramperto generava in lui il senso di sollevazione che la confessione genera in ogni buon cristiano, per tutta quella gente che, ben lontana dall’essere delinquente, riferiva al sacerdote ogni piccolo inciampo sulla strada della rettitudine temendo di finire nel più basso girone dell’inferno per un uovo rubato per fame al mercato. Il prete sapeva benissimo che il sacramento era il sistema che la Chiesa usava per controllare il proprio “gregge” (in fin dei conti usava anche lui le informazioni così ottenute), ma era pur sempre un obbligo che doveva rispettare. In passato non aveva avuto molto da ammettere, se non quel suo eterno e inestinguibile desiderio di eccellenza perversa, la sua morbosa sete di sapere. Ne aveva parlato più volte, anche al di fuori della confessione, col suo Vescovo che lo ascoltava con aria serissima e solenne, per poi scoppiare a ridere e a chiedergli, per schernirlo, se per caso non avesse anche desiderato, di quando in quando, di abbuffarsi di quei dolcetti di frutta e secca e miele, tanto da appesantire un po’ la sua colpa e consentirgli di comminare al suo attendente qualche Pater-Ave e Gloria, garantendogli che per il cilicio c’era tempo e aggiungendo, per completare la provocazione, di non poterlo assolvere, giacché non era affatto pentito. Nonostante questo, Alfonso aveva continuato ogni volta a raccontare a Ramperto la stessa cosa. Fino a qualche tempo prima, quando si era tolto il peso dall’anima rovesciando sul suo superiore l’amore per Adelaide e il repertorio di peccati che questo portava con sé.

<Non vorrei che quella donna avesse cercato di avvelenarti, Alfonso… > aveva detto il vescovo quando aveva saputo della pozione, ma il suo attendente non l’aveva nemmeno fatto terminare e qui aveva risposto brusco: <Voi pensate che la mia mente sia obnubilata dai sentimenti o, peggio, dai piaceri del sesso. Non è così, signore. Per la troppa fretta ho bevuto l’intera bottiglia del farmaco mentre Adelaide si preparava a diluirne una dose ed essendo io alle sue spalle si è accorta di quello che avevo fatto quando ora ormai troppo tardi. Tutto qui>.

<Non volevo offenderti, Alfonso – aveva risposto Ramperto -. Sono solo molto preoccupato per te. Ormai vivi per questo tuo amore. Era mia intenzione offrirti di accettare la mia proposta di sposarti e di trasferirti, anche se confesso che fare a meno di te non sarebbe stato facile, ma adesso non posso lasciarti andare. Dobbiamo fare fronte a Michele e alla sua banda. E poi dobbiamo mettere su una difesa efficace contro i saraceni prima che la setta lo faccia al posto nostro e poi usi il proprio esercito così costituito contro di noi>. Il segretario del Vescovo aveva, a quel punto, avuto il tempo per svegliarsi. Del mal di testa non restava che una lieve sensazione di fastidio. Quando si era reso conto che l’ora dell’appuntamento con Adelaide era già passata chiamò un servo fidato e mandò ad avvertirla che non stava ancora bene e che quel giorno non si sarebbero potuti incontrare. Poi si era seduto al suo tavolo, di fronte a Ramperto e aveva cominciato a discutere con lui di quello che si poteva fare. <Con certezza bisogna convocare le compagne – aveva detto Alfonso – e capire cosa possono metterci: provviste, armi. Anche informazioni. Perché ogni mercante ha le proprie spie nei porti più grandi. Normalmente una buona informazione fa la fortuna di una spedizione a discapito dell’altra. Dobbiamo chiedere a tutti, alla luce della comune situazione di pericolo, di rinunciare agli individualismi e, magari, anche a un pò di guadagno pur di salvare l’intera comunità e, in buona sostanza, gli affari di tutti>.
<La tua è un’idea saggia – aveva risposto il Vescovo -, ma quanti tra i mercanti più ricchi, che hanno un maggior numero di spie e, quindi, di informazioni, accetteranno di continuare a pagare e di pagare più̀ degli altri, per il bene comune?>.

<Comunque dobbiamo provarci, la paura sarà una saggia consigliera> aveva detto Ramperto, che poi aveva spostato il discorso sui contestatori.

<Stroncheremo sul nascere l’ipotesi di un esercito parallelo, ma Michele e gli altri continueranno a fomentare il popolo usando argomenti efficaci in special modo sui più ignoranti e su coloro che dal cambio al vertice avrebbero da guadagnare>.

<Dobbiamo trovare il modo di gettarli nel ridicolo, di trovare le falle del loro sistema – aveva consigliato Alfonso -. Possibile che nessuno di loro abbia qualcosa da nascondere? Possibile che nessuno di loro commetta un qualsivoglia peccato da esporre al pubblico ludibrio. Bisogna screditarli prima che raggiungano un numero troppo consistente di accoliti. In questo momento la città non può essere spaccata perché diventerebbe troppo vulnerabile>. A quel punto la discussione tra i due era stata interrotta dall’irruzione di Demetrio. Qualcuno aveva trafitto padre Michele con la spada e mentre stava agonizzando gli aveva intagliato una croce nella fronte. L’anziano prete non era ancora morto, ma le sue condizioni erano gravissime. <Bisogna correre a San Donato – aveva detto il capitano delle guardie -. Magari voi capirete qualcosa di quello che sta rantolando>. Alfonso e Ramperto si erano gettati addosso i mantelli, erano saliti a cavallo. Le strade del borgo e quelle del castello erano piene di gente ed era stato un miracolo che i due, seguiti da Demetrio, fossero riusciti a non travolgere donne, vecchi e bambini. Arrivati a San Donato avevano trovato la chiesa presidiata dalle guardie che a fatica tenevano a freno gli accoliti dell’anziano prete. Quando i membri della setta avevano visto il vescovo e il suo attendente avevano tentato di assalirli e c’era voluto il deciso intervento dei militari per evitare che li disarcionassero. Mentre Ramperto e Alfonso entravano, un centinaio di persone gridava <Assassini! Assassini!>. I chiasso copriva le parole appena sussurrate di Michele. L’anziano prete continuava a perdere sangue sia dal ventre sia dalla fronte. Evidentemente la spada non aveva leso organi vitali, ma era chiaro che il sacerdote sarebbe presto morto dissanguato. Anche in quelle condizioni aveva riconosciuto il Vescovo ma, anziché allontanarlo come Ramperto si sarebbe aspettato, l’aveva tirato debolmente a sé con una mano che non aveva più forza. Il Vescovo si era chinato appena in tempo per ascoltare le ultime parole di Michele: <Avis, Behemot, Leviathan…[1] Occhi alteri[2]… Diaboli janua…>, poi più nulla. Il vecchio prete era spirato e portando con sé l’unica parola che il Vescovo avrebbe voluto sentire: il nome dell’assassino. Ahm, se solo non fosse stato come al solito più attento alla forma che alla sostanza. Se si fosse limitato a riferire chi era stato. Era morto come aveva vissuto, sacrificando l’efficacia al giudizio. Intanto la folla aveva sfondato lo sbarramento del cordone di sicurezza delle guardie e si era riversata in chiesa per raggiungere la stanza dove si trovava Michele, ormai cadavere, alla quale si accedeva da una porticina laterale. Per fortuna un buon numero di militari erano giunti a dare manforte ai colleghi. Le guardie erano riuscite a fatica a fermare l’assalto quando già qualcuno dei contestatori era entrato in sacrestia e aveva preso Ramperto per un braccio, mentre Alfonso era riuscito ad assestare un calcio al secondo uomo che era entrato con l’intenzione di accoltellarlo. Tutti i ribelli erano stati presi. Uomini e donne erano stati concentrati verso l’altare, sotto la minaccia delle armi dei militari agli ordini di Demetrio. Tutti erano stati incatenati, le mani e i piedi ben stretti nei gioghi di ferro e trascinati per la città fino alle carceri della Cattedrale. Tra questi non c’erano nè Gusberto nè Rolanda. Il giovane prete era stato mandato a chiamare da Ramperto senza tanti convenevoli <per comporre la salma e celebrare i funerali, ma a porte chiuse, perché questo è il volere del Vescovo> gli aveva detto l’emissario di Ramperto a mezza voce, temendo la reazione del giovane prete.

<Perché mi disturbi, servo e cosa stai farneticando?> aveva risposto il giovane prete senza alzare la testa dal tomo che stava consultando. <Nessuno potrà partecipare alle esequie – aveva continuato l’uomo inviato dal Vescovo tentando di darsi un contegno e fingendo di non aver sentito quello che Gusberto gli aveva detto -. Questo ordine sarà fatto rispettare da una guardia armata>. Il prete aveva perso la calma. Si era alzato e aveva assestato un ceffone all’uomo che osava rivolgersi a lui in quel modo così poco rispettoso. <Togliti dai piedi. Vai da Ramperto e digli che voglio immediatamente parlare con lui. Digli che sarò in Cattedrale tra poco> aveva detto spingendo il poveretto fuori dalla porta. Quello era scappato via a gambe levate temendo che Gusberto lo picchiasse di nuovo. Era arrivato dal Vescovo poco prima del prete, che invece era giunto a cavallo, vestito come si trovava nel suo studio e con un mantellaccio pesante gettato addosso. Il giovane sacerdote, rosso per la rabbia, era sceso al volo dalla cavalcatura affidata allo stalliere sorpreso di averlo visto arrivare trafelato. Quindi aveva coperto a larghi passi la distanza tra la stalla e l’ufficio di Ramperto e aveva fatto irruzione, come sempre senza bussare. Non trovando il Vescovo si era precipitato nella stanza di Alfonso, ma anche quella era vuota. Allora aveva cominciato a scrollare per le spalle tutti i servi, i monaci, i preti, gli scudieri e le guardie che incontrava nel chiostro. Proprio le guardie gli avevano detto che Ramperto e il suo attendente erano nelle carceri a interrogare le persone che avevano tentato di aggredirli e che erano state arrestate. Gusberto a quel punto aveva cercato di ritrovare la calma. Non gli andava di scendere nelle galere. Alla luce del trattamento poco cortese ricevuto poco prima, quando lo avevano mandato a chiamare come se fosse un servo, temeva che il Vescovo avesse deciso di rinchiudere anche lui. Certo, le spie avevano certamente riferito alla Cattedrale il suo ruolo nel gruppo di Michele. Non era un caso che Ramperto avesse affidato proprio a lui le esequie: era un preciso segnale, un messaggio trasversale che faceva paura. Aveva pensato per un attimo a scappare, a raccogliere quanto possibile e a lasciare Genova. Ma era troppo avido per abbandonare tutto quello che non poteva portare con sé. Aveva, quindi, deciso di sedersi ad aspettare il Vescovo nel suo studio. Ramperto, al quale era stato riferito tutto il trambusto inscenato dal suo pupillo, non si era certo affrettato a uscire dalle prigioni. Gusberto poteva sentire le grida, i lamenti e i pianti delle persone che venivano picchiate e torturate là sotto ed era stato preso dal panico. Quando il Vescovo, insieme ad Alfonso, era rientrato nel suo appartamento aveva trovato il giovane tremante e quasi trasfigurato. Più pallido del solito, terrorizzato, aveva perso il proprio consueto atteggiamento spocchioso. Aveva a mala pena trovato la forza di dire: <Mi avete chiamato, Signore?>.
<Sono felice – aveva risposto Ramperto – che quanto riferitomi fosse falso. Pensate, il mio emissario mi ha raccontato che avevate accolto con rabbia e insofferenza gli ordini che io stesso vi ho impartito tramite lui. Ha aggiunto che lo avete persino malmenato. Certamente non è così perché ora, come si conviene, vi ponete con umiltà al mio cospetto>. Gusberto aveva recepito, più che le parole, il tono formale del Vescovo. Un tono che mai aveva usato con lui. <Bene, adesso non indugiate e andate a celebrare le esequie di padre Michele. Il corpo è già stato trasportato qui. La sepoltura avverrà stanotte. Dopo di che sarete libero di tornare a casa vostra, da vostra moglie. Fino a quel momento Demetrio e i suoi uomini baderanno che non vi succeda qualcosa di male> aveva concluso Ramperto e poi aveva congedato il sottoposto con un gesto della mano. Gusberto aveva compreso i mille messaggi che il Vescovo gli aveva lanciato: non godeva più della sua stima e più nulla gli sarebbe stato perdonato, era anzi considerato “persona da sorvegliare”, insomma, un pericolo. Il giovane prete aveva cercato negli occhi di Alfonso la soddisfazione, ma non l’aveva trovata. Era come se fosse assente, se stesse pensando ad altro. Si rallegrò che, almeno il segretario di Ramperto, non mostrasse ostilità nei suoi confronti, ma allo stesso tempo la sua indifferenza lo indispettiva. Uscito dalla porta aveva trovato il capitano delle guardie e sei dei suoi uomini che si divisero in due file e gli si posizionarono ai lati, con Demetrio in testa e cominciarono a muovere con passo marziale verso la cripta dove avrebbe dovuto celebrare i funerali di Matteo. Si sentiva addosso gli occhi di tutti i servi che aveva maltrattato e non alzava la testa per evitare di vedere che stavano ridendo di lui. Si era sforzato di pensare ad altro e si era detto che adesso che il vecchio prete era morto, era lui il capo del gruppo o, meglio, di quello che ne sarebbe rimasto dopo che Ramperto avrebbe inflitto le pene ai colpevoli dell’aggressione.

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Intanto Ramperto e Alfonso, che erano rimasti nello studio del Vescovo, cercavano di trovare il bandolo della matassa dei delitti. Era evidente che erano legato l’uno all’altro. Anna, Consalvo, il giovane Beltramo, Jacopo il mercante e adesso Matteo: a tutti era stato intagliata sulla fronte una croce. A tutti meno che ad Anna, alla quale era stata “scolpita” nelle carni l’iniziale delle parola prostituta. Alfonso aveva raccontato a Ramperto che la stessa lettera era stata marchiata a fuoco anni prima sulla fronte di Adelaide. <È chiaro che anche in questo caso si tratta di un giudizio, di una condanna morale – aveva detto il Vescovo -. Quanti omicidi avremo ancora se non sapremo trovare gli assassini?>.

<Pensavo che sarebbero stato dieci, come i dieci comandamenti – aveva risposto il suo attendente –, ma poi Adelaide mi ha fatto pensare ai peccati capitali descritti nei “Proverbi”: “Sei cose odia il Signore, anzi sette gli sono in abominio: gli occhi alteri, la lingua bugiarda, le mani che spargono sangue innocente, il cuore che medita disegni iniqui, i piedi che corrono frettolosi al male, il falso testimone che proferisce menzogne e chi semina discordie tra fratelli”. Non pensare al nostro modo di semplificare i peccati capitali: superbia, invidia, gola, lussuria, ira, avarizia e accidia. In realtà, non sono scritti così, lo sai bene. È vero, potremmo dire che Anna è stata indicata come colpevole di lussuria. Ancora, tuttavia, non l’aveva commessa, a meno che chi l’ha uccisa non pensasse alla sua relazione col ragazzo celta. Consalvo era colpevole d’ira, Jacopo era ebreo, prestava soldi a usura perché la sua religione glielo consentiva. Era avaro? Sì, tutti sanno che lo era. Beltramo era considerato da molti, anche da Gusberto e Ronalda, un campione di accidia e padre Matteo era certamente un superbo. Ma seguendo questa regola chi pensate che ammazzeranno, adesso? Mancherebbero l’invidia e la gola. Uccideranno, dunque, l’uomo più grasso della città? Oppure chiunque abbia manifestato di possedere la casa del vicino o la fortuna in affari dell’amico mercante? Se invece ragioniamo secondo i “Proverbi”, e dobbiamo farlo, perché la prova della correttezza del ragionamento di Adelaide ce la danno le ultime parole di Michele: “occhi alteri”, dobbiamo accoppiare Consalvo a “Mani che spargono sangue innocente” per aver ucciso almeno una delle sue figlie, Jacopo a “Lingua bugiarda” per aver frodato il collega dicendo una menzogna o, meglio, tacendo la verità; Beltramo ai “piedi che corrono frettolosi al male” perché aveva imboccato una strada che, secondo chi lo ha ucciso, così come secondo Gusberto e Rolanda, lo portava diritto al male>.
<E quale frase si attaglierebbe ad Anna?> Non seminava discordie tra i fratelli e non aveva testimoniato il falso. Forse il suo cuore meditava “disegni iniqui”. Voleva fare la prostituta, ma poteva saperlo solo Adelaide, che aveva fatto in modo che la giovane li abbandonasse e quindi il peccato non è stato commesso. Dobbiamo indagare su Anna perché forse è lei la chiave di lettura di tutto. In fin dei conti è stata la prima ad essere uccisa>.

<Io so quello che tu stai cercando di dire senza offendermi – aveva incalzato il Vescovo -. Vuoi dirmi che Gusberto aveva tutte le ragioni per fare sparire Anna. Certo non avrebbe mai sposato la sorella di una prostituta. Forse l’ha fatta seguire, forse le sue spie hanno visto entrare la ragazza nella casa di Adelaide. Jacopo, come ricordavi, era ebreo e il gruppo di Michele da tempo sosteneva che gli ebrei dovessero essere buttati fuori dalla città. Anche molti mercanti lo pensano, perché sostengono che con la possibilità di prestare denaro ad usura fanno concorrenza sleale ai colleghi cristiani. È evidente che i piedi di Beltramo, secondo i canoni di Gusberto, stavano correndo velocemente al male sfidando gli ordini del padre e mettendosi al servizio delle prostitute. Quanto a Consalvo, sarebbe stato un suocero tanto iracondo quanto scomodo. Michele, infine, era certamente superbo, io stesso ho condannato la sua alterigia nei miei confronti. Probabilmente Gusberto se n’è servito, ma ormai lo giudicava un ostacolo e voleva la sua posizione alla guida del gruppo. Credi che io non abbia capito perché ha scelto una moglie muta? Perché non arrivasse alle mie orecchie il fatto che sarebbe rimasta vergine dopo il matrimonio. Sapeva che solo se si fosse sposato io gli avrei concesso l’ordinazione, la chiesa delle Vigne e le terre. Ha calpestato suo padre e in questo io sono stato suo complice. Mi ha usato e io gliel’ho permesso. Poi ha calpestato anche me>.

<Non nascondo di ritenere Gusberto capace di molte nefandezze – aveva detto Alfonso -. Avevo capito le sue intenzioni sin da quando era partito per la scuola monastica, ma se ve le avessi dette voi avreste pensato a una forma di gelosia nei suoi confronti. Voi l’amate molto, Ramperto. Ora, il suo tradimento ve lo mostra capace di qualsiasi cosa. Non dimenticate, però, che il ragazzo non tradirebbe una cosa e una cosa soltanto: la sua anima. Non ucciderebbe non perché sia virtuoso, ma perché teme troppo di vedere le porte dell’inferno che si schiudono. Io non credo che sia colpevole. Forse sa qualcosa. ma non è nè il mandante nè tantomeno l’autore dei delitti. Alcuni degli uomini che sono stati uccisi avrebbero potuto sopraffarlo: Consalvo, Jacopo, forse persino Beltramo e padre Matteo. No, non è l’autore dei delitti né il mandante, ne sono certo. Forse, però ne è l’ispiratore, magari inconsapevole. Oppure, sì, si rende conto degli effetti delle cose che va predicando e, sentendosi comunque libero da responsabilità morali dirette, continua a sputare sentenze attendendo che qualcuno le esegua. Sinceramente ho pensato a Rolanda. Ma certamente non può aver agito da sola>.

<Bene, la farò sorvegliare – aveva concluso il Vescovo -. Ora dammi ascolto: vai dalla tua Adelaide. La mia idea di vivere di riflesso le gioie di una famiglia, rinunciando a quelle dell’amore, ci ha portato a tutto questo. Tu inseguilo, l’amore, visto che lo possiedi e lui ti possiede nel profondo, con la stessa intensità con cui tu vorresti possedere il sapere. Travestiti come puoi perché non ti riconoscano e vai al porto. Stanotte, con tutto questo trambusto, nessuno si accorgerà della tua assenza. Io continuerò a riflettere sulle ultime parole di padre Michele: “occhi alteri”… quelli di una persona che ha un’eccessiva considerazione di sè. “Superbia, malizia e la volontà di fare del male”… Infine, “Diaboli janua”… La porta del diavolo. Sì, è così. E se avessi inteso male la sillaba finale delle parole e ora stessi confondendo i casi delle declinazioni latine e confondessi soggetti e complementi? Se con Janua avesse semplicemente inteso il nome della città e le due parole fossero staccate, pezzi di un discorso più ampio? Magari è stato solo il delirio di un uomo terrorizzato dal Male che si appresta a incontrarlo. Potrebbe essere solo l’ultima delle sue farneticazioni piene di demoni, peccato e paure>. Alfonso, però, non lo stava già più ad ascoltare. Col corpo era lì, ma con la mente aveva già raggiunto Adelaide.

©Monica Di Carlo. Tutti i diritti riservati. Vietati la riproduzione anche parziale del testo e qualsiasi uso non autorizzato dall’autore

[1] Tre dei nomi del demonio secondo Oddone da Cluny, il secondo abbate dell’Abbazia di Cluny, 875-942 . Ogni nome era utilizzato per indicare uno dei vizi del demonio, nell’ordine: superbia, lussuria e malitia nocendi e diventava esso stesso uno dei nomi del Maligno.

[2] “L’Eterno odia queste sei cose, anzi sette sono per lui un abominio: gli occhi alteri, la lingua bugiarda, le mani che versano sangue innocente, il cuore che concepisce progetti malvagi, i piedi che sono veloci nel correre al male, il falso testimone che proferisce menzogne e chi semina discordie tra fratelli.” (Proverbi 6:16-19).

IX Capitolo – “Delle trappole incrociate e delle nere profezie”

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ORRORE PRIMO CAPITOLO
II CAPITOLO
III CAPITOLO
IV CAPITOLO
V e VI CAPITOLO
VII CAPITOLO
VIII CAPITOLO
IX CAPITOLO

IX Capitolo
“Delle trappole incrociate e delle nere profezie”

Matteo, inviato da Ramperto, si era inserito bene nel gruppo del prete Michele. Si era avvicinato lentamente, fingendo di cadere nella rete di Rolanda che in cattedrale sceglieva accuratamente i possibili accoliti. Il giovane aveva finto insofferenza per il lassismo del Vescovo, aveva criticato l’operato di Alfonso, aveva elogiato, invece, Gusberto e si era auspicato che egli potesse far rinsavire il padrino. Infine aveva condannato apertamente il sistema delle decime alle prostitute in cambio del silenzio complice della Curia. A quel punto la trappola non poteva che scattare. Rolanda aveva invitato il ragazzo ad andare ai vespri a San Donato. Lì padre Michele aveva voluto fargli qualche domanda di persona prima di “iniziarlo” alle riunioni notturne a casa della “pia donna”. Per questo lo aveva fatto entrare in sacrestia e mentre si spogliava dei paramenti gli aveva detto di accomodarsi su una panca. Padre Michele era un uomo piuttosto anziano, dalle sopracciglia bianche e foltissime e la fronte rugosa perpetuamente accigliata. Anche i capelli erano bianchi e uscivano scomposti e ispidi dal cappuccio. Per qualche secondo era rimasto senza dire una parola, a cogliere un qualsiasi cenno di imbarazzo del ragazzo. E invece questo stava seduto con una gamba accavallata sull’altra, lo sguardo fisso negli occhi del prete e le labbra ad accennare un sorriso. Alla fine fu il sacerdote a non poterne più e chiese a Matteo se fosse pronto ad assoggettarsi alle regole del gruppo, ben più severe di quelle della Cattedrale. <Ad esempio non potrai avvicinarti alla tua fidanzata, se ne hai una> aveva detto Michele. <Non ho fidanzata – aveva risposto il giovane – e ben s’intende che quando deciderò di sposare una donna, la porterò vergine all’altare nè mai mi avvicinerò a una meretrice e a nessuna ragazza, come fino ad ora ho fatto anche senza che foste voi a chiedermelo giacchè non siete voi, mio buon padre, ma l’Altissimo, a impormi la purezza del cuore e del corpo. È anche possibile che io decida di farmi monaco perché già mi è cara la Regola benedettina e da tempo pratico l’ascolto, l’obbedienza, l’umiltà, l’orazione, la povertà, il lavoro, il silenzio, il raccoglimento e la lettura della Sacra Scrittura e dei Salmi>. All’anziano prete la risposta era piaciuta moltissimo. Era felice di aver trovato in Matteo un altro “soldato” per la sia causa, un ottimo adepto. Sarebbe stato davvero un peccato, pensava, se quel ragazzo che tanto aiuto poteva portargli si fosse chiuso in un monastero a zappare la terra. <Dimmi, che ne pensi del collaboratore del Vescovo, Alfonso?> aveva chiesto Michele. <No so se posso permettermi signore…> aveva risposto Matteo, fingendosi dubbioso sull’opportunità di continuare dicendo male di uno degli uomini di maggior potere della città, il secondo dopo lo stesso Ramperto. <Dì pure ciò che hai sulla lingua – aveva risposto il prete – e non temere giacchè io sento che condividerò il tuo giudizio>.
<Ecco, signore – aveva iniziato Matteo, facendo una lunga pausa ad effetto prima di continuare -, io penso che un uomo di Chiesa non può bordare il proprio mantello di pelliccia né può sfoggiare preziosi gioielli>. Il sacerdote non aveva più potuto trattenersi e aveva gridato <E può forse avere un amante prostituta? Può trascurare il suo Ufficio, le celebrazioni, i doveri che il suo ruolo gli impone per trascorrere le proprie giornate nel letto di una baldracca a commettere qualsiasi turpitudine, sodomia compresa? Io dico che questo è un uomo del Demonio, dico che porterà sulla città l’ira del Signore e che per questo bisogna fare in modo che questo nemico di Cristo non possa più nuocere>. Il giovane aveva pensato che quanto Padre Michele aveva detto fosse una menzogna, detta ad arte per gettare ulteriore discredito sul potere del Vescovo attraverso il suo attendente: fango sul pericoloso e potente bastone della guida religiosa e civile della città, ma si era comunque ripromesso di raccontarla a Ramperto anche per vedere che faccia avesse fatto e capire se in tutto quel delirio ci fosse un barlume di verità. Dopo aver ottenuto la convocazione alla preghiera notturna, l’appuntamento era fissato per due ore dopo il calare del sole del giorno successivo, era tornato a casa con la raccomandazione dell’anziano sacerdote di parlare a suo padre e al Vescovo, che erano molto amici sin da bambini, dei terribili peccati di Alfonso. Matteo aveva pensato di avere così una buona scusa per correre così alla cattedrale, da Ramperto, a riferirgli i risultati della propria missione: dell’invito ottenuto per la preghiera notturna e delle maldicenze sul suo attendente. Michele gli aveva anche raccomandato di tenere d’occhio orari e spostamenti di Alfonso. Anche questo avrebbe detto al Vescovo col quale aveva appuntamento a casa di suo padre. Nessuno si sarebbe stupito se il Vescovo fosse andato a fare visita all’amico Adalberto. Lo faceva sempre, almeno due volte la settimana, perché il mercante commerciava a nome della Cattedrale comprando stoffe preziose ed oro e vendendo vino, legna, manufatti degli artigiani alle dipendenze di Ramperto. Nella casa del mercante avrebbero potuto parlare con libertà, senza temere che dietro la porta ci fosse l’orecchio di Gusberto o quello di una delle spie che nel frattempo il giovane prete aveva fatto in modo di procurarsi tra i servi della Curia. Matteo aveva riferito tutto al Vescovo che lo aveva ascoltato senza che dal suo volto trasparisse la benché minima emozione. Nè compiacimento per l’ottimo lavoro svolto dal giovane fino a quel momento nè disapprovazione per quelle che la giovane spia pensava fossero menzogne messe in giro ad arte per screditare Alfonso. Ramperto gli aveva detto di partecipare alla riunione e di tenere le orecchie ben aperte e aveva aggiunto che il giorno seguente la notte di preghiera col gruppo di Michele sarebbe tornato per conoscere nei dettagli come si svolgevano gli incontri. Uscendo di casa e percorrendo a piedi, scortato dalle guardie che lo aspettavano fuori dalla casa dell’amico mercante, la strada che lo separava dalla Cattedrale si era detto che si sarebbe dovuto privare prima del previsto della preziosa collaborazione del suo attendente. Per lui Alfonso era come un fratello minore e non voleva vederlo ammazzato a bastonate con una croce intagliata sulla pelle della fronte. Meglio perderlo e sperare per lui una vita felice. Non era sicuro che quella relazione avrebbe potuto significare per il suo segretario la nuova meravigliosa vita che Alfonso sognava, ma tra i pericoli, il più urgente da affrontare era sicuramente la minaccia rappresentata da Michele. Era quasi certo che la catena di omicidi fosse da ricondursi al suo gruppo. Probabilmente non tutti erano al corrente degli atti criminosi messi in atto da qualcuno e probabilmente c’era una cupola che decideva e un braccio armato che eseguiva, non più di cinque o sei persone in tutto che si stavano costruendo attorno consensi per arrivare poi a mettere in discussione la sua autorità. Forse, se fossero state certe della propria forza, avrebbero attentato anche alla sua vita.

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<“Negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, insensibili, sleali, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene, traditori, sconsiderati, orgogliosi, amanti del piacere anziché di Dio, aventi l’apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza[1]“> questo diceva Michele, vestito completamente di nero, col mantello ancora addosso e il cappuccio tirato sulla testa nonostante nella stanza il fuoco ardesse vivacemente a scaldare i convenuti che stavano seduti per terra, in circolo, mentre il prete era accomodato su una cassapanca. C’erano almeno trenta persone e la stanza usata da sempre per le riunioni, la camera più grande della casa di Rolanda, stava diventando piccola, tanto che donna stava facendone costruire una molto più grande dall’altra parte della casa, sul retro, in modo che fosse nascosta agli occhi di chi passava per la strada. Matteo si era sistemato vicino a Gusberto e Rolanda per poter sentire meglio quello che i due si dicevano. Ma nè loro nè altre persone si scambiavano una parola. Semplicemente rispondevano alle preghiere con altre preghiere in latino antico, recitate a memoria. Probabilmente molti dei presenti non ne capivano nemmeno il significato. La luce del fuoco e quella delle lampade danzava sugli abiti della gente, sui loro volti che si alzavano a cercare il volto del prete anziano. Il viso di Michele, che le aveva le luci alle spalle, quasi non si distingueva mentre la sua figura sembrava contornata di luce. Il prete ripeteva frasi dell’Apocalisse di Giovanni, in greco, i fedeli gli rispondevano con una litania in latino. Quindi puntava il dito verso il vuoto, in direzione della Cattedrale e lanciava anatemi contro il Vescovo e la chiesa di Roma. Quindi profetizzava nella lingua del popolo le più atroci piaghe parafrasando e interpretando a modo suo il testo sacro. Parlava de “il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e Satana”. Tuonava <“Poi vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo”[2]>. Quel racconto alla gente di Genova evocava la leggenda popolare dei serpenti marino che rapivano i naviganti, che li portavano giù negli abissi rendendoli schiavi e costringendoli a vivere in catene sul fondo del mare, coperti di alghe, finchè il loro corpo non fosse perfettamente saponificato “in vita” e solo allora li sbranava mettendo così, finalmente, fine alla loro sofferenza. Matteo si era sentito rabbrividire. Gli tornava alla memoria quello che da piccolo la madre gli raccontava del fratello di suo padre, partito con sei uomini e la nave carica per commerciare stoffe tinte e mai più tornato a casa. A quel punto Gusberto si era alzato e aveva camminato lentamente fino a raggiungere Michele. In piedi accanto all’anziano sacerdote, si era girato verso i convenuti, e aveva recitato anche lui un passo dell’Apocalisse, ma in lingua contemporanea, in modo che tutti potessero comprendere. <La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande>. Tutti avevano risposto in coro <“A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.>. Ad ogni breve frase detta dal giovane sacerdote, tutti in coro ripetevano lo stesso versetto, quasi come se fosse una formula magica capace di scacciare il Demonio. A volte i presenti non aspettavano nemmeno che il sacerdote terminasse e ripetevano la litania coprendo con un coro cupo le ultime parole di Gusberto mentre Michele oscillava avanti e indietro col busto. La cerimonia era diventata un groviglio ipnotico di parole, minacce, catastrofiche profezie, ammonimenti. I brani dell’ Apocalisse venivano mescolati, i più impressionati venivano ripetuti mentre quelli non calzanti alla situazione nè utili alla causa venivano tralasciati. Matteo aveva l’impressione che alcuni venissero adattati ad arte alla bisogna e si era ripromesso di verificarli sul testo una volta giunto a casa. La litania diventava sempre più veloce a trascinare tutti in un gorgo di paura superstiziosa che aveva attanagliato anche l’infiltrato, un’atmosfera pesante perché sull’anima di ognuno venivano scaricati i peccati del mondo. A un certo punto Gusberto si era fermato. Aveva preso un lungo respiro e aveva guardato tutti in faccia, uno per uno, facendo scorrere lo sguardo, occhi negli occhi per un brevissimo interminabile momento con ciascuna delle persone che aveva di fronte. Poi aveva ricominciato a parlare, ma questa volta molto lentamente, scandendo le parole: <È vicino il momento in cui l’Agnello aprirà il sesto sigillo. “Vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi[3]”. Questo accadrà e accadrà molto presto se non interverremo a cambiare la rotta, a rovesciare la guida di questa città che si sta allontanando da Dio>.

<“A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”> avevano risposto per l’ultima volta i presenti. Poi il silenzio in cui ciascuno dei convenuti navigava con terrore nel proprio mondo fatto di superstizioni, di spavento, di solitudine di fronte sia alla grandezza dell’Altissimo sia all’infinito Male. Matteo aveva improvvisamente percepito una profonda sensazione di freddo. Ne cercava le ragioni nella suggestione che Michele e Gusberto avevano creato ad hoc per quella serata in cui nulla era stato lasciato al caso, ma si era reso conto d’improvviso che il freddo non era nella sua anima, ma nel suo corpo. Il fuoco nel camino era ridotto a poche braci e a un ammasso di ceneri. Anche l’anziano prete, che pure era il più vicino al camino, non godeva più del tepore della fiamma. Quindi aveva congedato tutti. <Offrite al Signore una rinuncia personale, una privazione dell’anima o del corpo – aveva detto -, fate penitenza e ricordate che per continuare la Santa Missione di sottrarre la società al Maligno c’è bisogno di molto denaro. Bisogna usare la moneta, che è strumento del Demonio, per lottare contro di lui. Solo così potremo essere salvi>. Mentre tutti uscivano, si era piantato accanto alla porta con la mano tesa mentre Gusberto pregava Matteo e pochi altri di fermarsi ancora qualche minuto. Il giovane prete aveva congedato anche Ronalda: ben sapeva che di lei non ci si poteva fidare fino in fondo e che meno sapeva dell’azione di discredito iniziata nei confronti del Vescovo e più la missione aveva probabilità di riuscita. <In fin dei conti questa è casa mia> aveva tentato di protestare la donna. Ma Gusberto l’aveva presa da parte: <Questo incontro, devota Ronalda – aveva mentito il prete pur di togliersela d’attorno – serve soltanto per testare la fedeltà di coloro che erano stati chiamati a colloquio. Alcuni potrebbero non parlerebbero liberamente se ci fossero altre persone ad ascoltare>. La “pia donna” masticando amaro, aveva dovuto accettare di uscire dalla porta che conduceva alle cucine, ovviamente ripromettendosi di origliare, ma il giovane prete immaginava che questa sarebbe stata la sua reazione e aveva aperto d’improvviso la porta trovandola lì, con l’orecchio teso. L’aveva guardata, allora, con uno sguardo cattivo, come si guarda un cane che ha fatto una brutta marachella e lei impaurita, con le orecchie basse proprio come un cane, si era veramente allontanata. A essere chiamati a rapporto erano stati quattro giovani di sesso maschile. Tutti piuttosto prestanti. <La Verità ha bisogno di voi come soldati – aveva detto Michele -. Se la amate siete chiamati a difenderla e ad offendere coloro che non la amano>. Il più giovane aveva reagito con entusiasmo, esplodendo in un “Sì!” che non lasciava scampo a interpretazioni. Gli altri, invece, erano evidentemente perplessi. Cosa significava essere “soldati della Verità”? Cosa avrebbero dovuto fare? Nessuno dei tre, però, aveva il coraggio di fare direttamente la domanda. Tutti aspettavano che l’anziano prete parlasse, ma lui fece una lunga pausa per studiare le reazioni dei ragazzi. Matteo si sforzava di non far trasparire le proprie emozioni, ma in questo suo tentativo il viso gli si era infiammato come se stesse alzando con sforzo un peso incredibile. <Che c’è? Hai paura?> aveva chiesto Gusberto. Ma Michele non aveva atteso la risposta e aveva rivelato che era sua intenzione costituire una “guardia” per difendere i vertici del gruppo (cioè se stesso e Gusberto, aveva pensato Matteo), ma anche per opporsi al Vescovo. C’era poi un altro grave problema da affrontare, aveva detto. Quello dei Saraceni, contro il quale Ramperto faceva poco o niente e che prima o poi sarebbero tornati. <Non è passato molto tempo da quando moltissimi nostri fratelli morirono o furono ridotti in odiosa schiavitù – aveva detto Michele – nonostante l’assemblea generale convocata non appena si seppe dell’avvicinarsi della flotta di Safian Ben-Casim avesse organizzato la difesa per le tre quartieri di Castello, Borgo e Prè e avesse costruito torri d’avvistamento, bastioni e ripari. Voi sapete cosa raccontano quelli che, liberati dal Califfo Obeid che i suoi uomini chiamano Miramolino, per chiedere inutilmente in cambio i prigionieri della sua razza che erano presi della nostra città. Le donne più belle sono state violentate e ridotte a concubine di quegli animali, che meglio sarebbe stato per loro morire. Tanto che alcune per la vergogna hanno rifiutato di tornare indietro e altre si sono uccise. Anche i bambini sono stati usati come servi o, peggio, anche loro violentati, perché i saraceni sono bestie e praticano abitualmente rapporti contro natura anche a danno dei più piccoli. Tra questi disgraziati ci sono certamente anche vostri amici e parenti. Un giorno, molto presto, in questa situazione potreste esserci anche voi e potrebbero esserci tutti coloro che amate. Le navi di Safian Ben-Casim torneranno bene armate per liberare gli africani che sono qui ancora prigionieri. Voi vedete ancora le macerie e la distruzione laddove i saraceni sono riusciti ad arrivare. I soldati della cattedrale non basterebbero a respingere un attacco in forze. Dobbiamo organizzarci per respingere gli infedeli, distruggerli, sterminarli, perché non possano più tentare di prendere la città. Non possiamo difenderci con le sole navi mercantili perché nei periodi in cui la navigazione è più facile, d’estate, proprio quando arrivano questi maledetti, le imbarcazioni e gli uomini sono tutti fuori dal porto e qui restano solo le donne e qualche vecchio mercante>. Matteo pensava che su questo argomento padre Michele avesse ragione. Quando, qualche anno prima, i Saraceni avevano attaccato Genova, la gente si era difesa con forza e con tenacia. Appena era giunta voce dell’avvicinarsi della flotta, le compagnie della città avevano convocato l’assemblea del popolo. I mercanti avevano deciso di non fare partire le navi e di tenerle pronte a intervenire appena fuori dal golfo. Tutta la merce alimentare era stata ammassata in granai e dispense. L’assemblea aveva deciso di restaurare l’antico castello con le sue tre torri. All’estremità del Borgo era stata costruita una grande torre di legno. Alle foci del Bisagno e del Polcevera, dove le navi nemiche potevano avvicinarsi più facilmente che in porto, erano state sistemate catapulte e altre macchine da guerra. Il Borgo era stato difeso rinforzando le mura dove era possibile. Il tutto in soli otto giorni. Saffian era arrivato con trenta navi e cento “scelandie”, cioè galee. Le più grosse contenevano duecento persone e le più piccole cento. La flotta partita il 5 maggio dalla Sicilia era arrivata in vista di Genova alla metà del mese. Gli infedeli non erano riusciti a mettere la città sotto assedio. Avevano appena messo a segno qualche incursione rapendo i pochi ostaggi che erano riusciti ad agguantare. Ma la difesa era pronta e troppo forte per i saraceni che non si aspettavano certo una simile accoglienza. Con un ardito raid navale in forze, i genovesi erano riusciti a conquistare ben 17 navi degli invasori perdendone soltanto una. Le altre avevano continuato ad incrociare nelle acque della Liguria per qualche mese ed erano state poi decimate da una tempesta. Saffian era tornato in patria con quello che gli restava della flotta. Certo Michele aveva ragione. L’ammiraglio del califfo Obeid sarebbe tornato con più navi e spinto dalla voglia di liberare la gente del suo popolo che era stata catturata e che adesso veniva tenuta in prigione o, più spesso, impiegata nel lavoro dei campi o per la costruzione e riparazione degli edifici pubblici. Matteo si era ripromesso di parlare di tutto questo al padre e al Vescovo. Possibile che, come diceva l’anziano prete, non stessero pensando a una difesa? Spaventati dalla prospettiva dell’assalto dei saraceni prima ancora che dal demonio, anche i giovani che prima tentennavano ad accettare la proposta di padre Michele si erano uniti con entusiasmo alla causa e avevano promesso di reclutare alcuni loro amici per organizzare l’“esercito di dio”. Si sarebbero incontrati nuovamente alcuni giorni dopo. Il problema da superare era quello convincere un numero cospicuo di uomini a prestare servizio senza ricevere alcun compenso. Solo la paura dei saraceni poteva essere una spinta sufficiente.

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Il giorno dopo Matteo aveva ricevuto la visita del Vescovo e gli aveva spiegato per filo e per segno tutto quello che era accaduto durante la riunione dei contestatori avendo cura di stilare l’elenco dei partecipanti. Ramperto era parso subito molto preoccupato perché se era vero che in effetti c’era la necessità di allestire una difesa contro i possibili invasori, era anche chiarissimo che Michele non avrebbe usato i propri fedelissimi solo per respingere gli assalti. <Sta mettendo su una forza per tentare di rovesciarmi> aveva detto il Vescovo con un filo di voce, come se parlasse tra sè e sè. <Bisogna che sia tu a mettere su l’esercito contro i saraceni – lo aveva incalzato Adalberto – prima che sia lui a farlo. Altrimenti l’emergenza gli conquisterà consensi. La paura lavorerà per lui, il terrore che gli africani arrivino da un momento all’altro sarà il suo migliore alleato>.

<Bene, allora oggi stesso ne parlerò con Alfonso. La sua è una mente fina e certamente sarà capace analizzare i “pro” e i “contro”, di trovare la soluzione migliore tenendo anche conto del fatto che non possiamo pagare un esercito. Bisogna convincere la gente a lavorare senza ricevere in cambio nè denaro nè legna, nè prodotti della terra nè vino. Bisogna che sia il popolo a chiederci di fare parte della difesa, che siano i mercanti a chiederci di finanziarla. D’altro canto è nell’interesse di tutti>. Poi Ramperto si era rivolto al giovane Matteo. <Continua la tua missione come se nulla fosse accaduto e aggiornaci su tutti quelli che aderiscono al progetto del vecchio prete>. Quindi si era incamminato verso la Cattedrale per fare il punto col suo attendente e organizzare sia un piano in grado di fermare Michele, sia una difesa stabilmente operativa contro i saraceni alla quale, era vero, non aveva mai pensato.

©Monica Di Carlo 2015 – Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’autore.

[1] Timoteo 3:1-5

[2] “Apocalisse” di Giovanni.

[3] Apocalisse di Giovanni

VIII CAPITOLO “Dell’Amicizia e delle donne” – “Orrore. Genova 935”

salasso

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ORRORE PRIMO CAPITOLO
II CAPITOLO
III CAPITOLO
IV CAPITOLO
V e VI CAPITOLO
VII CAPITOLO
VIII CAPITOLO

Capitolo VIII

(Dell’amicizia e delle donne)

Alfonso aveva percorso in pochi minuti la strada tra il bosco e la cattedrale. Era contento di essere andato a cavallo all’appuntamento con Adelaide e, quindi, adesso, di poter tornare velocemente a San Siro. Appena arrivato alle stalle, ancor prima di smontare da Nerone, aveva chiesto se il vescovo fosse rientrato e quando gli avevano detto di sì aveva tirato un sospiro di sollievo. Non si sarebbe mai potuto perdonare se Ramperto fosse stato preso in un’imboscata. Si era precipitato a bussare alla stanza del suo superiore e, non avendo ricevuto risposta era entrato, ma neanche quando la porta si era spalancata il Vescovo si era mosso. Il prete lo aveva trovato in piedi davanti alla finestra, così assorto nei suoi pensieri da non accorgersi del segretario fino a quando era arrivato tanto vicino a lui da poterlo toccare. Allora si era voltato e gli aveva chiesto <Figliolo, ti sei mai sentito sciocco?>. Il suo attendente gli aveva detto che accadeva quasi quotidianamente e che oggi gli era successo almeno tre volte. Le aveva contate mentalmente: quando era passato armato fino ai denti in mezzo alla gente per andare a costatare il decesso del mercante, quando, ubriaco, si era sentito in imbarazzo per il rapporto “non convenzionale” che aveva avuto con Adelaide e infine quando lei aveva sfoderato conoscenze che mai avrebbe potuto immaginare. <Se è vero – aveva risposto Ramperto – allora non sono l’unico sciocco della città. Se, invece, lo dici solo per consolarmi e pur di farlo appesantisci la tua anima con una menzogna… in quel caso vuole dire che ho ancora una persona che mi vuole bene>. Poi il vescovo aveva cominciato a raccontare della visita al figlioccio e delle assicurazioni ricevuta da lui circa la futura nascita di un “nipote”. <Certo che non potevo dirgli di sapere che non è mai rimasto solo nella stessa stanza con la moglie – aveva detto l’alto prelato con la voce appesantita dalla delusione e dalla rabbia -. A questo punto la presenza della spia che gli ho messo in casa mi è necessaria a capire cosa sta organizzando Gusberto e se davvero pensa a rovesciarmi, se il suo gruppo è responsabile degli omicidi e se intende organizzarne altri. Non mi è parso opportuno, in quel momento, mettere il ragazzo davanti alle sue bugie per chiedergliene ragione. Tanto più che Gismunda, presente al nostro incontro, assentiva vigorosamente ad ogni parola che dicesse il marito. Mi chiedo perché lo abbia fatto. Forse Gusberto la minaccia. Se non avessi anche tu una spia in quella casa, penserei che è il mio uomo a non dire la verità Ora Gusberto si prepara a diventare sacerdote. Mancano ormai pochi giorni. In queste condizioni non posso dire che non lo ordinerò. Dovrei anche spiegargli il perché e non potremmo più indagare né sugli omicidi né sulle intenzioni dei suoi amici. Certamente farò sorvegliare in modo assiduo i due sacerdoti che partecipano agli incontri, ma, come sai, la loro posizione mi era già nota. Tu pensa ai mercanti. Quello che abbiamo arrestato, lascialo in galera, stanotte. Avrà modo di riflettere. La sua famiglia è già venuta alle porte della cattedrale per reclamarne la liberazione. L’ho fatta cacciare in malo modo minacciando di arrestare figli e fratelli dell’uomo. Ho pensato solo in un secondo tempo che questo comportamento non fa che aumentare l’acrimonia nei miei confronti, ma ormai quello che è fatto è fatto. Non possiamo che proseguire su questa strada e approfittarne per mettere a tutti un po’ di paura. Con Gusberto mi sono spinto a parlare della fede e del governo della città. Mi ha detto apertamente che secondo lui è necessario più rigore ed egli stesso mi ha confessato di ritenere che gli omicidi siano legati a una certa atmosfera di lassismo cagionata “del governo di questa città”. Sono io il governo di questa città! Proprio così ha detto: “lassismo”. Ha aggiunto che dovrei pretendere la partecipazione di tutti ad ogni celebrazione e punire i peccati con maggiore decisione e non solo con qualche “Pater Ave e Gloria”. Io ho cercato di spiegargli che il mio ruolo di Vescovo non è quello di prete. Devo punire i reati e non i peccati, perché il potere che ho discende dall’imperatore Ugo di Provenza. Io lo amministro soltanto. So che non posso esagerare perché se il popolo si ribella – e tu lo sai che gli abitanti di questa città non sono disposti a sopportare tutto ciò che ostacola il loro lavoro e i loro affari, fosse anche la frequenza assidua delle celebrazioni nelle ore nelle quali si può lavorare – la Cattedrale perde il potere. Non io, ma la Cattedrale. Insomma, Gusberto mi ha trattato come se fossi un povero vecchio rincoglionito. E io ho dovuto lasciarglielo fare. Anzi, se vuoi che ti dica cosa penso veramente, non sono stato capace di impedirglielo>. Alfonso avrebbe voluto dirgli che a quel ragazzo aveva lasciato per troppo tempo le briglie sciolte, ma non lo aveva fatto perché il vescovo gli sembrava già sufficientemente abbacchiato. Non era il caso di infierire. Anzi, visto che gli aveva aperto il cuore, era forse quello il momento di fare altrettanto e di chiedergli un parere circa la sua relazione con Adelaide. Così, premettendo che non parlava al confessore, ma all’amico, aveva detto a Ramperto che aveva bisogno di togliersi un peso dallo stomaco. Il Vescovo gli aveva sorriso per la prima volta nel corso di quella lunga conversazione e gli aveva chiesto se per caso volesse sapere se per un prete intrattenersi con una prostituta era peccato mortale. Alfonso si era sentito sciocco per la quarta volta nella stessa giornata. Come aveva potuto immaginare che il suo superiore, con la sua rete di spie, non sapesse già tutto? <Se il problema di cui mi vuoi parlare é solo questo, allora é facile da risolvere> aveva detto il Vescovo sorridendo di nuovo. <Ramperto, il fatto è che io sono innamorato di quella donna, perché è intelligente, colta e di animo buono – aveva confessato il prete -. Sarebbe una compagna formidabile e se potessi la sposerei oggi stesso. Ha subito molte violenze e molte ingiustizie nella sua vita, compresa quelle inflittegli dal vescovo di Pavia. Nel mio cuore è forte la volontà di evitargliene altre>. Il vescovo gli aveva detto di conoscere a grandi linee ciò che era successo ad Adelaide. Aveva preso informazioni quando la donna aveva trasformato la sua casa in un postribolo. Quando poi aveva cominciato con Alfonso l’attività di redenzione delle prostitute, aveva approfondito la questione. Non sapeva esattamente cosa fosse successo a Pavia, se non che era stata arrestata per aver sedotto un sacerdote anziano, il custode della biblioteca, ed avergli sottratto dei libri proibiti che, si era detto Ramperto, la donna, probabilmente, aveva poi venduto per guadagnare qualche soldo. Alfonso gli aveva raccontato la storia così come lui la sapeva e come la prostituta gliel’aveva narrata. Aveva detto al Vescovo di quanto fosse colta e della perversione del vecchio prete che certamente le aveva regalato i libri perché li imparasse a memoria e poi non aveva avuto il coraggio di confessarlo al suo superiore. <Io ti offro una cosa, Alfonso – aveva detto il vescovo -. Se tu mi prometti di verificare che il tuo sia amore e non semplice passione e mi aiuterai prima a risolvere tutti i problemi che ci troviamo a dover risolvere in questo momento, io ti sposerò ad Adelaide e falsificherò i documenti così che tu possa dimostrare di averla presa in moglie quando ancora non eri sacerdote. È evidente che lei dovrà essere disposta ad abbandonare la propria attività e che insieme dovrete lasciare la città. Vedrò̀ di trovarti una parrocchia da amministrare, lontano da qui, dove nessuno vi conosca. Se il Papa è figlio di un papa e se sua madre ha davvero ucciso il padre e diversi altri capi della chiesa, non vedo perché tu non ti possa sposare. E magari avere dei figli, anche se ormai tu e Adelaide non siete più giovanissimi>. Alfonso si era sentito in dovere di confessare a Ramperto che la prostituta era sterile e questi aveva risposto che non importava e che sarebbe potuto partire da Genova con uno o due bambini orfani che lui avrebbe scritto nei registri della cattedrale come figli legittimi. Alfonso non avrebbe osato sperare tanto. Si era detto che avrebbe verificato bene la consistenza del suo amore per Adelaide e che non le avrebbe detto niente per un po’, tranne che il Vescovo sapeva, tanto per rassicurarla che lui non correva rischi.Ramperto gli aveva raccomandato di essere prudente perché se gli amici di Gusberto avessero saputo della sua relazione avrebbero chiesto le sue dimissioni e sarebbero stati guai per lui, per la Cattedrale, ma soprattutto per Adelaide perché il secondo Sinodo di Toledo aveva raccomandato che i sacerdoti che ospitano donne sospette fossero puniti e che il vescovo dovesse venderle come schiave. <A Pavia, mi hanno riferito – aveva spiegato il Vescovo -, non è stata venduta, in ottemperanza alle regole, solo perché i preti della diocesi quasi al gran completo avevano pregato il vescovo di non farlo. Già̀ in quegli anni, pare, Adelaide si occupava di fare “opere di bene”>. Ramperto aveva sottolineato con un tono di voce volutamente formale le ultime parole, poi era scoppiato a ridere. Solo grazie al racconto di Alfonso aveva la lettura corretta di quanto gli avevano riferito le sue spie a Pavia. Altro che opere di bene! Quella donna era l’amante di tutti i preti della zona e costoro, tutti insieme, avevano intercesso per la sua liberazione. Questo pensiero non l’aveva tradotto in parola per non amareggiare Alfonso, al quale aveva, invece, spiegato che se un pericolo c’era in quella sua storia d’amore era il fatto che lei dimostrasse una così smodata passione per il sapere. <Tu sai che Clemente Alessandrino diceva che “La sola consapevolezza del proprio essere dovrebbe costituire una vergogna per le donne” – aveva ricordato il Vescovo -. E che il sinodo di Elvira ha decretato che le donne non possono né scrivere, né ricevere lettere a proprio nome. San Paolo apostolo infine, ha scritto “La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare o dettare legge all’uomo; piuttosto se ne stia in atteggiamento tranquillo”. E aveva specificato che “Essa potrà essere salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con modestia”>. Alfonso aveva detto al suo vescovo che avrebbe voluto che si incontrasse con quell’essere imperfetto di cui parlava, quella figlia di Eva che della prima donna, come tutte le altre, aveva ereditato il peccato originale perché così voleva la Chiesa. Ramperto aveva sorriso e gli aveva dato una pacca sulla spalla come se fosse stato uno degli uomini che scaricano le merci delle navi in porto. <Dai, Alfonso, stavo scherzando – aveva concluso il vescovo prima di congedare l’attendente -. Dove è finita la tua ironia? Su una cosa non scherzo, però: stai attento a quella donna. Non perché è una donna, ma perché è come se tu avessi abbassato lo scudo davanti a un possibile nemico, a qualcuno che ancora non conosci bene. Capisco quello che provi, ma non posso non avvertirti che potresti rimanere deluso. A lei tieni molto, come io tengo a Gusberto e per questo siamo senza difese davanti a loro>. Il prete aveva dovuto riconoscere che il suo superiore aveva ragione. Era andato verso la sua stanza riflettendo sulla discussione appena conclusa. Avrebbe dovuto concentrarsi sull’interrogatorio del mercante. Ma in quel momento non riusciva a pensare ad altro che al letto. Solo l’indomani sarebbe sceso nelle carceri. Ora voleva, doveva, solo dormire perché, dopo due giorni di veglia, i suoi riflessi erano azzerati e non sarebbe stato in grado di mantenere la lucidità necessaria. Tornando finalmente nella propria stanza, aveva ignorato i libri aperti sul tavolo e si era gettato sul materasso dove era sprofondato immediatamente in un sonno segna sogni. Il mattino dopo si era svegliato che era già tardi, ma non se ne era preoccupato. Si era preso il tempo del quale necessitava per prepararsi a scendere nelle carceri. Aveva chiamato i servi perché gli portassero acqua calda per il bagno e, dopo, aveva indossato un abito pulito e calzari lustri. Quindi, scortato da quattro guardie, aveva raggiunto la cella di Berto il mercante. L’uomo stava seduto per terra con la schiena appoggiata al muro. Quando aveva visto il prete aveva alzato lo sguardo, ma non si era mosso. Alfonso era entrato insieme alle guardie, una delle quali aveva portato uno sgabello sul quale il prete si sarebbe seduto davanti al prigioniero. <Cosa vuoi da me, segretario del Vescovo? Non vi bastano forse i tributi che pago sui miei affari? O forse non sono sufficientemente rispettoso delle regole della Chiesa o dell’Imperatore?> aveva detto il mercante col preciso intento di risultare irriguardoso nei confronti dell’autorità della Cattedrale che Alfonso stava rappresentando. <Se parli dell’osservanza delle feste comandate e delle liturgie – aveva risposto il sacerdote – nessuno ti può rimproverare. Se parli delle percentuali sui tuoi affari, per quanto ne sappiamo, nessuno può dirti che non fai il tuo dovere, ma sta pur certo che controlleremo. C’è il fatto, però, che è stato ucciso un uomo col quale tu avevi un contenzioso, al quale eri contrapposto in una causa che rischiavi di perdere e che, probabilmente, perderai coi suoi eredi. E allora mi chiedo, se è vero come dice la famiglia che Jacopo non aveva altri nemici, chi altro se non tu è stato ad ucciderlo>. Berto aveva spalancato gli occhi e aveva dimostrato genuina sorpresa alla notizia della morte del collega, ma non bastava questo a scagionarlo. Aveva chiesto quando era stato ucciso ed Alfonso glielo aveva detto. Quindi il mercante aveva assicurato che poteva fornire decine di testimoni, giacché a quell’ora si trovava al porto perché stavano scaricando una delle sue navi. Poteva chiamare gli scaricatori, i marinai, il comandante della nave, persino il riscossore delle tasse della Cattedrale. Il prete non aveva mai pensato che Berto avesse ucciso Jacopo. Era molto più vecchio e l’altro era una gigante del quale diversi uomini assieme potevano aver ragione solo cogliendolo di sorpresa. In un contrasto corpo a corpo, l’uomo arrestato dalle guardie della cattedrale avrebbe certamente avuto la peggio. Il prete riteneva, invece, che Berto o, meglio, il suo gruppo di oltranzisti religiosi potesse aver fatto uccidere Jacopo da una banda di assassini prezzolati e non per affari, ma per motivi religiosi giacché Jacopo era figlio di un cristiano e di un’ebrea, cosa che nella società genovese non aveva importanza alcuna, ma per la setta doveva essere una specie di peccato originale. E poi Jacopo era tutto fuorché un buon cristiano, nel senso in cui lo intendevano Gusberto e i suoi amici. In mancanza di prove concrete o di una confessione, Alfonso sapeva di dover rilasciare Berto. Sperava di spaventarlo un po’ perché, magari, potesse pensare a denunciare i capi della setta. Certo, avrebbe potuto dare ordine ai secondini di torturarlo, ma questi metodi non gli erano mai piaciuti e, inoltre, non era il momento di alzare la tensione tra il gruppo degli ultraortodossi e la Cattedrale. Meglio, dunque, fargli molta paura e quindi rendergli la libertà, facendolo seguire dalle spie del vescovo e aspettare che lui o i suoi amici facessero un passo falso. La cosa migliore sarebbe stata quella di infiltrare una persona nel gruppo di Gusberto per capire se davvero all’interno c’era chi puntava a rovesciare Ramperto e se tra quella gente c’era chi preparava e commissionava gli omicidi. Le indagini dei mesi seguenti non avevano portato ad altro che a constatare l’intensificarsi delle riunioni del manipolo dei contestatori. L’unico ad esporsi pubblicamente era stato Michele, il prete più anziano, che nelle sue omelie dal pulpito della parrocchia di San Donato accusava apertamente il Vescovo di lassismo e nelle riunioni notturne, tra una preghiera e un “mi dolgo”, teorizzava un governo <più cristiano e osservante> per San Siro e per la città. Richiamava la necessità di un fronte unico dei cristiani contro i mori di Frassinetto, i pirati arabi che saccheggiavano la costa. Il Vescovo era riuscito ad infiltrare nel gruppo Matteo, figlio di un suo amico, il ricco mercante Adalberto. Il giovane desiderava ordinarsi più per seguire la carriera politica che per vocazione. Per quella sua caratteristica di scarso attaccamento alla fede e per la fedeltà dalla sua famiglia alla Cattedrale che in cambio aveva sempre concesso ampi benefici, Ramperto lo aveva scelto istruendolo su come approcciare la comunità attraverso un collega del padre, uno dei commercianti che avevano deciso di stringersi attorno al prete Michele. Quasi tutti i discepoli dell’anziano parroco, aveva raccontato l’infiltrato, partecipavano alle funzioni religiose presso quella chiesa, percorrendo anche una strada molto lunga per raggiungerla, anche più volte al giorno, a costo di trascurare gli affari e la famiglia. Solo Ronalda continuava a frequentare la cattedrale, con il preciso incarico di spiare le azioni del vescovo e fare proseliti, mentre Gusberto, ormai ordinato prete, raggiungeva San Donato soltanto per incontrare il maestro col quale aveva sostituito il suo padrino, ovviamente, solo quando egli stesso non doveva celebrare alle Vigne. Gismunda, ovviamente, non era rimasta incinta e alle domande del Vescovo il marito aveva risposto che evidentemente la mancanza della parola non era l’unica cosa della quale la moglie soffrisse. Certamente, aveva detto a Ramperto, oltre alla parola le era carente la capacità di procreare, di essere ventre accogliente per <un soldato dell’esercito di Dio>. Questa definizione di un figlio, così vuota di amore, aveva fatto rabbrividire il Vescovo. Ben sapeva che i due continuavano a dormire separati e che Gusberto, all’interno della comunità di ultra ortodossi, si faceva un vanto della propria assoluta castità. Gismunda non se ne lamentava affatto perché viveva in una bella casa, aveva a disposizione molti servitori e il cibo era abbondante. Non poteva sperare di meglio e aveva paura di perdere quella posizione privilegiata che le era capitata in sorte dopo tanti guai. La felicità si può trovare anche in un piatto di minestra calda o in un letto soffice quando ti sono mancati per troppo tempo. Per questo seguiva alla lettera le istruzioni del marito e, quando qualcuno le chiedeva perché non fosse ancora rimasta incinta, allargava le braccia e abbassava lo sguardo, come se la colpa di quello che accadeva, anzi, non accadeva, fosse sua.

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Il rapporto di Alfonso e Adelaide continuava con incontri quasi quotidiani, non sempre all’insegna del sesso, anche se quella era certo una componente forte della relazione. Il prete, al quale era più facile che ad altri procurarsi i testi, si era messo a studiare i primi filosofi arabi e sempre più spesso i due discutevano più di questi che dei padri della Chiesa. A volte i due abbandonavano la filosofia per le strade dell’erotismo, ma la meta era sempre la stessa: sublimare le sensazioni. Vie ignote per il prete, vergine fino a poco tempo prima e adesso allievo disciplinato e volenteroso della prostituta dedita alla fedeltà. Infondo, per entrambi s’era verificata un conversione. Tra i molti libri dei quali nel corso degli anni la donna era entrata in possesso pagandoli bene ai mercanti di tutto il mondo che arrivavano con le loro navi al porto di Genova c’era un volume che si chiamava Kama Sutra, cioè “Aforismi sull’amore” dove l’“amore” era inteso come piacere. Adelaide diceva che era stato scritto secoli prima da un certo Vatsyayana. Il volume era scritto con caratteri ignoti che la prostituta sostenere essere quelli del sanscrito. Il commerciante arabo che anni prima aveva dimenticato il libro accanto al letto di Adelaide (e del quale Alfonso era irragionevolmente geloso) era un mercante arabo che aveva detto di averlo avuto a sua volta da un collega che veniva dall’Oriente, da un paese dove il Kama, il piacere, non era percepito come un peccato, ma era uno dei quattro scopi della vita. La donna aveva spiegato ad Alfonso che tra le diverse religioni del mondo, oltre al paganesimo, al cristianesimo e all’islamismo, c’era anche l’induismo secondo i quali i principi fondamentali della vita dell’uomo, oltre a kama, erano dharma, artha e infine moksha: la legge del mondo alla quale l’uomo deve sottostare; le esigenze dell’uomo per il benessere quotidiano; la liberazione dal ciclo delle rinascite a cui l’essere terreno, era obbligato per compiere il suo destino e liberare l’anima. Kama, non era necessariamente il piacere sessuale, diceva Adelaide, ma il piacere in senso generale, fosse anche quello di mangiare un frutto gustoso. <Ne so troppo poco, Alfonso, per essere in grado di spiegare – diceva la donna -. Anche io vorrei capire, perché credo che avremmo molto da imparare anche da questo. Immagino che si possa in qualche modo collegare a quanto sostiene Alchindus[1] e cioè che l’anima è una sostanza semplice e immateriale, collegata al mondo materiale solamente attraverso la facoltà di operare attraverso il corpo fisico>. Poi sorrideva e apriva l’incomprensibile libro fino a trovare, concentrate in un solo capitolo, i disegni delle posizioni dell’amore che i due sperimentavano più per gioco che per fare sesso perché spesso scoppiavano a ridere nel bel mezzo del tentativo di amplesso acrobatico. Anche quello era un modo per aggiungere tasselli alla conoscenza, la sete inestinguibile che univa i due più di ogni altra cosa che aveva travalicato ormai da un pezzo il sapere cristiano. Tutto questo ad Alfonso sembrava un peccato che superava per gravità i molti che negli ultimi mesi aveva commesso, ma non era in grado di smettere, di mettere un freno all’orgia di sensazioni fatta di conoscenze così lontane dalla propria formazione eppure allo stesso tempo così condivisibili. Quando tornava al convento, nella sua stanza, continuava a leggere e a studiare e spesso passava la notte sui libri per svelare poi alla donna l’indomani quello che di nuovo aveva imparato. La stessa cosa faceva Adelaide, addirittura più disciplinata di lui nell’immagazzinare concetti, digerirli, elaborarli e riproporli. Quei giorni, fatti di dita macchiate dall’inchiostro e dalla polvere che si era accumulata sui libri, ma anche di abbondante vino e di poco cibo, alla fine avevano provocato ad Alfonso un’emicrania fortissima che per giorni non gli aveva dato tregua. Erano i primi di gennaio e il vento gelido che veniva dai monti spazzava la città. Il prete, che negli ultimi giorni era tormentato da dolori continui e più forti del consueto, aveva cominciato a credere che quella condizione che gli impediva di studiare fosse una sorta castigo di Dio, il quale certamente lo stava punendo per il suo “desiderio di eccellenza perversa”, per il suo peccato di immodestia. Certamente era la punizione che l’Altissimo gli aveva riservato già in terra, forse per compiere l’estremo atto d’amore e misericordia nei confronti del suo poco umile servitore avvertendolo prima che la sua deriva del peccato fosse incontrastabile. Mentre Alfonso diceva queste cose, Adelaide aveva tirato fuori dalla sacca che aveva portato con sè un boccettino. <Bevi questa teriaca, ti farà sentire meglio – aveva detto la donna – si chiama galenos, è molto antica e ormai sono poche le persone che sanno prepararla. Ho imparato a confezionarla da un anziano marinaio che nel suo paese è stato medico. È composta da sessantatre ingredienti che arrivano dai quattro angoli della terra. Ci sono carne di vipera, estratti di angelica, centaura minore, genziana, mirra, incenso, timo, tarassaco, e poi linfa di papavero, matricaria, succo d’acacia, potentilla, miele, finocchio, anice, cannella, cardamono, radice di valeriana. La preparazione è piuttosto complicata, occorrono mesi. Quando è pronta bisogna invecchiarla per molto tempo>. Alfonso quasi non l’ascoltava. Aveva capito che quella pozione gli avrebbe fatto bene e avrebbe fatto qualsiasi cosa l’avesse guarito anche solo per poco tempo. Mentre Adelaide si era girata per accendere il fuoco, il prete aveva stappato il boccettino e lo aveva bevuto tutto, senza curarsi del pessimo sapore. Quando la donna se ne era accorta era ormai troppo tardi: la dose da prendere era pari a un sesto della piccola bottiglia e doveva essere versata nel vino. Lei pensò che non restava altro che restare a guardare gli effetti e sperare che non fossero devastanti. Alfonso non aveva impiegato molto a sprofondare in un piacevolissimo senso vuoto dove galleggiava in un mondo ovattato, in cui non c’era posto né per il dolore né per l’ansia. Vedeva Adelaide e le sorrideva, ma non per il piacere di vederla. Anzi, non aveva ben presente, in quel momento, chi fosse. Il prete sorrideva, invece, del proprio stato di beatitudine che scivolava sempre di più verso la sonnolenza. La donna si era spaventata quando il respiro di Alfonso aveva cominciato a farsi raro e poco profondo. Si era piegata su di lui ad ascoltargli il cuore. Anche i battiti erano rallentati. Aveva cercato di parlargli, di chiedergli come stesse e se desiderava che chiamasse qualcuno, magari il suo vescovo. Ma lui rispondeva con parole insensate, spiccioli di pensiero. Sconnesse e spesso nemmeno distinguibili. Erano frammenti di passaggi in un mondo fatto di immagini serene sfumare l’una nell’altra, ad alternarsi in un lattiginoso senso di benessere. Le pupille di Alfonso si erano fatte piccolissime. Appena un puntino che sembrava affondare sempre di più nell’iride, fino quasi ad affogare. Le sue mani si muovevano ad accarezzare il nulla oppure si spostavano faticosamente per contrastare un prurito che sembrava spostarsi da una parte all’altra del corpo. La sua testa sembrava eseguire una danza sul collo. Lenta, sempre più lenta, fino a quando il prete, addormentato col sorriso sulle labbra, era rimasto perfettamente immobile. Pareva non respirare e il suo volto era diventato bluastro. Adelaide, pur in preda del panico, era riuscita a ricordare e a fare quello che marinaio le aveva raccomandato. <Se si esagera col galenos si rischia la morte – aveva detto l’uomo -. Allora bisogna soffiare a lungo il proprio respiro nella bocca del malcapitato. Bisogna respirare per lui>. Così aveva fatto la donna, ripetutamente, fino ad andare in iperventilazione e a sentirsi girare la testa. Catturava l’aria con profondi respiri e quindi univa la propria bocca a quella del suo amore per restituirgli il fiato. Questa volta non per baciarlo con la passione che li travolgeva quando si univano carnalmente, ma con una passione ancora più forte e travolgente, con la fretta consigliata dalla disperazione, con la paura di vederlo spirare davanti ai propri occhi. Finalmente Alfonso aveva ricominciato a respirare, lentamente, rimanendo però sprofondato in un sonno che, adesso, pareva semplicemente senza sogni. Il prete rimase così, immobile, per diverso tempo ed era una fortuna che mancassero ancora diverse ore al calare del sole. Se qualcuno si fosse accorto che non era rientrato all’ora dei vespri, i soldati della Cattedrale sarebbero andati a cercarlo. Per fortuna il prete si era ripreso in tempo e, seppure ancora in stato confusionale, sorretto dalla guardia nera di Adelaide era riuscito a fare ritorno e a guadagnare la sua stanza. Si era buttato sul letto, pieno di fastidi muscolari alla schiena e alle gambe e lì era ricaduto in un piacevole torpore che ancora una volta gli aveva fatto dimenticare ogni problema, ogni dovere e ogni dolore fisico.

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[1] Considerato il primo filosofo musulmano, Al-Kindi Abū Yūsuf Ya‛qūb ibn Isḥāq, conosciuto in occidente con il nome di Alchindus (Al Kindi). Al-Kindi riprende da Aristotele la tesi secondo cui vi sarebbe nell’anima umana un intelletto potenziale che, per passare all’atto (ossia per conoscere di fatto gli oggetti intelligibili), richiede l’intervento di qualcosa che sia già in atto. Questo qualcosa già in atto è l’intelletto agente (o attivo), il quale conosce sempre in atto gli oggetti intelligibili, è distinto dall’anima ed è a essa superiore. Tale intelletto è connesso alle sfere celesti incorruttibili e deriva direttamente da Dio, come i raggi che emanano dal sole. Operò anche nei campi dell’ottica, della medicina, della matematica. Della chimica, della teoria musicale della crittografia e dell’astrologia.

VII CAPITOLO – Della morte del mercante bugiardo e della “Politica” di Aristotele

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ORRORE PRIMO CAPITOLO
II CAPITOLO
III CAPITOLO
IV CAPITOLO
V e VI CAPITOLO
VII CAPITOLO

Alfonso era estenuato. Avrebbe voluto dormire, adesso, ma non era ancora venuto il momento. Aveva chiamato Demetrio perché gli mandasse i suoi sei uomini più prestanti armati sia di spada, sia di mazza. Che uscissero con i cavalli bardati di tutto punto, come se dovessero andare in guerra. Voleva che facessero impressione, che gli autori degli omicidi, che fossero o non fossero gli amici di Gusberto, venissero a sapere che la Cattedrale aveva cominciato a prendere le cose molto sul serio. Per questo si era vestito anche lui con gli abiti migliori e aveva indossato le insegne del Vescovado. Quindi si era legato la spada alla cintura ed era montato su Nerone, il cavallo più imponente e massiccio, anche se non il più bello, della scuderia del convento. Alla guida della pattuglia si era avviato verso il Castrum. Al passaggio delle guardie, annunciato dal tintinnare delle armi e dal rumore degli zoccoli dei sette cavalli, la gente entrava nelle botteghe e nelle case e si ritraeva dalle finestre. Nella squadra era finito casualmente anche il soldato che la sera prima aveva partecipato alla riunione nella casa di Ronalda. Sembrava cadere dal sonno, proprio come l’attendente del Vescovo perché, proprio come lui, non aveva dormito. Alfonso aveva pensato che quella era la giusta occasione per terrorizzarlo e per lanciare messaggi al suo gruppo tramite lui. Per questo, una volta arrivato alle ricche case che si affacciavano sul mare dallo sperone di roccia, aveva lasciato il soldato all’inizio della strada, da solo, raccomandandogli di non muoversi e senza affidargli alcun compito di sorveglianza. Voleva che avesse chiaro che era stato sganciato dal gruppo senza alcun motivo se non quello della diffidenza in modo che potesse sorgergli il sospetto di essere stato scoperto. Quello aveva provato a protestare, ma il prete lo aveva fatto tacere con un solo sguardo. Quindi con gli altri cinque uomini aveva proseguito la strada ed era arrivato a metà della discesa. Lì aveva trovato la vedova e i suoi figli, che nel frattempo, avvertiti dai servi del padre,erano accorsi dalle loro case ed erano accanto al cadavere del mercante che giaceva proprio davanti a casa nella pozza del suo stesso sangue ormai in parte raggrumato. Chi aveva voluto toglierlo di mezzo lo aveva ucciso al mattino presto, quando era uscito da solo per scendere al porto. Quale peccato aveva mai commesso? Aveva rubato? Non aveva santificato le feste? Adorava un altro dio? La lettura dell’esecuzione fu fornita ad Alfonso da quello che gli avevano detto i figli della vittima: aveva detto falsa testimonianza. Questo sosteneva il collega che lo aveva denunciato, guarda caso uno di quei mercanti che la sera precedente avevano partecipato alla riunione di preghiera a casa di Ronalda. La questione riguardava la cessione di un carico affondato insieme alla nave che lo trasportava. Secondo il suo accusatore, il mercante assassinato ne aveva chiesto il pagamento anche se la transazione era avvenuta quando ormai tutte le merci erano colate a picco. L’uomo ucciso quel mattino aveva giurato e spergiurato che la transazione era stata conclusa, come di consuetudine con una stretta di mano, quando la nave stava ancora veleggiando verso Genova. Secondo il contendente, invece, il carico era stato venduto e pagato quando l’imbarcazione era già sul fondo del mare.

Il segretario di Ramperto, accommiatatosi dalla famiglia in lutto, aveva mandato gli armati a prelevare il secondo mercante. <Non andate tanto per il sottile – aveva raccomandato loro -. Legatelo dietro ai cavalli e trascinatelo a passo d’uomo attraverso la città fino alla cattedrale. Badate bene, però, a non fargli male. Quando arriverete, gettatelo in guardina. Io arriverò dopo l’ora dei vespri>. Quindi da solo era risalito verso la piazza grande e nel cammino aveva recuperato la guardia che aveva lasciato a metà strada. Gli aveva comunicato, parlando come se stesse appena facendo quattro chiacchiere per occupare il tempo necessario per ritornare alla cattedrale, che aveva deciso l’arresto del mercante <perché gli indizi a suo carico sono davvero pesanti>. E mentre lo diceva, pensava che solo un folle avrebbe mandato a uccidere chi aveva denunciato ben sapendo che sarebbe stato il primo indiziato. O non era lui il colpevole o era così pazzo da pensare di farla franca. Gli venne il dubbio che l’omicidio del mercante fosse solo una provocazione e gli balenò anche l’idea di essere pienamente caduto nella trappola di chi voleva depistare le indagini. L’arresto del collega dell’uomo assassinato, persona onesta e timorata di Dio, primo e unico indiziato del delitto, poteva essere la scintilla della rivolta e chissà su quanti uomini potevano contare gli amici di Ramperto. Questo lo avrebbe scoperto presto. Era arrivato al convento quando stava finendo l’ora quarta, Alfonso aveva detto di rinforzare la guardia alla cattedrale e alle prigioni. Ramperto non era ancora tornato. In tempi normali il suo segretario lo avrebbe raggiunto per difenderlo nel caso in cui qualcuno avesse tentato di assalirlo per liberare il prigioniero e quindi prendere il potere sulla città, invece non pensava ad altro che ad essere puntuale al trivio del bosco dove doveva incontrare la prostituta. Non aveva, però, completamente perso il senso delle cose. Almeno, non ancora. Così prima di andare a lavarsi, a rasarsi per non apparire ad Adelaide in quello stato e soprattutto a cambiarsi d’abito perché così bardato avrebbe dato troppo nell’occhio, aveva mandato il comandante delle guardie con una scorta incontro al Vescovo affidandogli una lettera in cui, sommariamente, raccontava ciò che era successo e i suoi timori e quindi aveva disposto che tutti i soldati in riposo rientrassero in servizio e si concentrassero armati fino ai denti all’interno del convento, possibilmente senza farsi notare troppo. Sapeva che la guardia che apparteneva alla setta di Gusberto avrebbe saputo delle sue disposizioni e avrebbe avvertito gli altri. Questo gli concedeva tempo. Perché il gruppo degli oltranzisti religiosi, nel caso in cui avesse voluto attaccare le prigioni, avrebbero saputo di non poter contare sull’effetto sorpresa e avrebbe meditato meglio un eventuale assalto. Poi era andato nella sua stanza e si era preparato per incontrare Adelaide così come avrebbe fatto un adolescente al suo primo appuntamento. In fin dei conti non aveva mai avuto, in precedenza, esperienza di affari di cuore e tantomeno di sesso. In quel momento si sentiva proprio come un ragazzino che non faccia i compiti affidatigli dal mastro di bottega per scappare a vedere la propria bella fuori le mura e tutto questo senza nemmeno un briciolo di senso di colpa. Nel messaggio per Ramperto aveva scritto che sarebbe uscito per effettuare alcune indagini, sperando, senza confidarci granché, che il suo superiore ci credesse. Sapeva che si stava esponendo molto, sapeva di rischiare, ma questo gli regalava un brivido in più. Aveva quasi il piacere di trasgredire e anche quella per lui era una novità eccitante. Il bisogno di vedere Adelaide, di sentirsi addosso il suo profumo, di parlare con lei, di baciarla era talmente forte da far scivolare tutto in secondo piano. Aveva un unico pensiero, quello di possederla di nuovo, di provare ancora le emozioni che gli avevano stravolto la vita.

Era arrivato al luogo dell’appuntamento a cavallo, ignorando ogni buona norma di prudenza. Aveva legato Nerone davanti ad un albero davanti alla casa ed era entrato sapendo bene che Adelaide non poteva ancora essere arrivata. Si era versato un bicchiere di vino e lo aveva bevuto in fretta perché aveva sete. Poi se ne era versato un altro e si era seduto su una panca poggiando sull’asse del coperchio, accanto alla brocca e al bicchiere, i piedi con tutte le scarpe. Si era sistemato con la schiena contro il muro e aveva reclinato la testa all’indietro. E meno male che la donna era arrivata anche lei in anticipo perché se non fosse stato così si sarebbe completamente ubriacato e in capo a qualche minuto si sarebbe anche addormentato.
Adelaide aveva aperto la porta ed era entrata. Con la sua bellezza prorompente. Col profumo della sua pelle e dei suoi capelli. Con le labbra, tinte di rosso minio per la prima volta da quando l’aveva incontrata. Con l’abito più scollato che avesse, un capolavoro di seduzione. Era era volato via in fretta, non appena la donna si era chiusa la porta alle spalle, senza che Alfonso avesse nemmeno il tempo di dirle “buongiorno”. Adelaide era nuda, salvo, ovviamente, la fascia sulla fronte. Completamente, perché aveva tolto anche i calzari e si era inginocchiata davanti a lui, gli aveva preso una mano, gliela aveva dolcemente accarezzata con la punta della lingua dal polso alle punte delle dita passando per il palmo. Alfonso aveva avuto un sussulto, aveva completamente perso la testa. Lei gli aveva chiesto se fosse stanco, ma lui non l’aveva nemmeno ascoltata. Il prete aveva dimenticato tutto quello che doveva raccontarle sul nuovo assassinio e sulla riunione alla quale aveva assistito la notte precedente. Le ripeteva solo <Sei bellissima>. Mentre lo diceva, si spogliava incespicando goffamente nei calzari che cercava di togliersi. Poi, era rimasto ingabbiato nella tunica per qualche secondo prima di riuscire faticosamente a liberarsene. Aveva capito in quel momento per la prima volta cos’è l’istinto, cos’è la passione quando ti lega i gesti e il cervello. Aveva avuto appena il tempo e la lucidità di pensare che almeno un milione di volte era stato troppo severo, in confessione, con chi pieno di vergogna gli spiegava di aver ceduto al peccato di lussuria. Ormai anche lui totalmente nudo, in completa erezione e senza vergogna alcuna, aveva girato attorno alla prostituta coprendola di baci. Quando le era arrivato alle spalle, lei si era d’improvviso, con gesto consumato, piegata sul tavolo che aveva davanti, appoggiandosi alla superficie con i gomiti e gli avambracci e allargando le gambe per cercare una posizione stabile. Alfonso non era stato troppo a pensare con quanta facilità la prostituta si offriva a lui. Infondo, non aveva avuto altre donne e non poteva comparare la pudicizia di una novella sposa o di una madre di famiglia alla sfrontatezza di una professionista del sesso.
Quando lui si preparava a penetrarla, Adelaide aveva girato il viso all’indietro, sostenendosi con entrambe le braccia tese e appoggiate sui palmi delle mani, e gli aveva detto <Più su>. E siccome lui non sembrava capire, aveva rinunciato al sostegno di una delle braccia e aveva allungato una mano dietro la schiena per guidare il membro dell’amante sussurrando <così ti piacerà di più>. Alfonso, stanco e ubriaco, non aveva avuto nemmeno il tempo di ragionare, di capire che quello che gli veniva offerto era un rapporto contro natura, un peccato mortale. Sapeva solo che desiderava provare le stesse sensazioni delle quali si era inebriato il giorno precedente, essere una sola cosa con quella che era diventata la sua unica ragione di vita. Lo aveva pensato senza rendersi conto che in quel preciso momento aveva smesso di disciplinare la coabitazione di Dio ed Adelaide dentro il proprio cuore. La donna aveva sfrattato l’Altissimo con un solo gesto e senza troppa difficoltà.
Se mai fosse stato possibile, quel giorno il piacere era stato ancora più intenso e l’emozione era diventata quasi pianto. L’amore si era trasformato nello stesso istante in profondità abissale ed altezza vertiginosa, tanto che Alfonso perse ogni controllo e l’amplesso si consumò nel tempo di un Pater Ave e Gloria. Era stato in quel preciso momento che Adelaide aveva capito di aver vinto la prima vera battaglia col dio di Alfonso, quel dio che l’aveva privata della dignità, che l’aveva fatta battere dai suoi servi, che l’aveva sottoposta alle più crudeli e disumane atrocità.
Alfonso, tanto era travolto dalla passione che aveva impiegato un po’ di tempo a recuperare lucidità e a rendersi conto che era andato oltre ancora una volta. Stavolta, ben oltre quello che era disposto a perdonarsi. Pensava di aver fatto del male ad Adelaide e allo stesso tempo di aver offeso Dio. La donna lo aveva compreso e si era affrettata a rassicurarlo, gli aveva detto che quello che era successo era stata lei a volerlo. <Tu pensi di aver fatto un’azione riprovevole, ma io sono felice e tu sei felice. Abbiamo fatto forse del male a qualcuno? Pensaci, Alfonso! Ragionaci!>. E lui ci aveva ragionato ed era arrivato alla conclusione che in fin dei conti il peccato stava già nel loro rapporto e, a monte, nell’essersi innamorato. Inoltre, Adelaide non poteva avere figli e per questo qualsiasi loro unione carnale era un rapporto contro natura perché era comunque “disperdere il seme”. Dopo aver permesso che l’alibi strutturasse nella sua mente una sorta di assoluzione, il prete non si sentiva disposto a rinunciare a quell’amore che gli faceva raggiungere vertici di piacere che mai da ragazzo aveva provato con la masturbazione e che si era insinuato in ogni angolo del suo cervello, tanto da fargli commettere azioni imprudenti come quella di lasciare il Vescovo senza la sua protezione. Quello che aveva detto la sua compagna, si disse in fretta, per evitare che la razionalità prendesse il sopravvento, era vero: non stavano facendo alcun male ad altri. Certo, avrebbe dovuto distinguere tra etica e morale disse dentro di lui la vocina del sacerdote rigoroso che era e che faceva ogni sforzo per mettere a tacere. Sapeva benissimo che se avesse continuato il percorso del ragionamento avrebbe dovuto dare torto alla sua donna e a se stesso. Smise quindi di pensare e rimase a godere delle carezze di Adelaide, del calore del suo corpo, del suo sorriso, del suono della sua voce. Dopo che lei gli aveva raccontato di un buon affare che aveva chiuso, Alfonso aveva cominciato a parlare del quarto assassinio e aveva raccontato anche di quello che era successo la sera prima e dei suoi sospetti nei confronti del gruppo degli “ortodossi”. Aveva spiegato alla donna che temeva tentassero di rovesciare il vescovo Ramperto per instaurare un regime più rigidamente legato agli usi della religione e, soprattutto, direttamente guidato da loro, ovviamente sempre sotto l’egida dell’imperatore Berengario al quale sarebbe importato poco chi gli versava il dovuto se i tributi continuavano ad arrivare puntuali. La donna aveva risposto con una frase di Aristotele. <È necessario dire che c’è democrazia quando i liberi abbiano il potere, ed oligarchia quando siano i ricchi a possederlo. Ma accade che i molti siano pochi: tanti, infatti, sono i cittadini liberi, ma pochi quelli ricchi[1]>. E quindi aveva aggiunto <Importa molto quali siano i “pochi ricchi” che comandano?>. Ramperto aveva risposto che importava eccome e aveva usato lo stesso Aristotele per sostenere che se era pur vero che l’aristocrazia, anche se era da considerarsi migliore della tirannia, degenerava sempre in oligarchia, era anche vero, questa volta secondo il suo personale giudizio, che un’oligarchia non equivalesse l’altra. Se per il filosofo il governo migliore era quello della classe media agricola, capace, secondo lui, di garantire meglio l’equilibrio dei ricchi che invece vogliono mantenere l’ineguaglianza e dei poveri che al contrario vogliono sovvertire lo stato delle cose, per Alfonso a comandare meglio era certamente chi sapeva usare la moderazione in senso assoluto come canone di governo. Certo, ci sarebbe stato molto da discutere, ma in definitiva il governo di Ramperto garantiva a tutti gli uomini liberi di poter lavorare la terra distribuita equamente in concessione, di fare affari, guadagnare e migliorare la propria posizione e quella della propria famiglia. Le tasse erano usate non solo per arricchire le casse della cattedrale, ma anche per sostenere i poveri. Adelaide aveva dovuto ammettere che, rispetto a Pavia, l’unica città che conoscesse quanto Genova, il governo qui era più assennato, anche se non trovava giusto che fosse un vescovo a regnare. <Non sto parlando di Ramperto, che, come dici tu, è illuminato – aveva detto la donna per rassicurare Alfonso, che appariva in quel momento prontissimo a contraddirla dai sensi di colpa nei confronti del suo Vescovo -, ma della Chiesa in senso lato. Se davvero avessero il sopravvento Gusberto, Ronalda e i loro amici preti, quale genere di futuro pensi potrebbe avere la gente di questa città? Questa non è un’aristocrazia e nemmeno un’oligarchia, ma una teocrazia. Chiunque sia il più forte può strappare agli altri il potere e governare nel nome di Dio e a nome di Dio. Può decidere anche cosa Dio vuole e imporlo a tutti. Nelle nostre discussioni noi stessi interpretiamo e usiamo a nostro favore questa o quell’opera di Agostino o di Aristotele. Anche ammesso che avessero ragione, anche se, come tu dici, nessuna idea dell’uomo è giusta a priori semplicemente perché viene da quell’essere fallibile che è l’uomo, le interpretazioni, permettono di distorcerle e a volte persino di ribaltarle. Io non so se nelle scuole monastiche vi fanno leggere solo i vostri libri sacri e qualche filosofo antico o se invece, per caso, potete leggere anche filosofi più attuali. A me è capitato recentemente, per uno strano caso della vita, di prendere in mano un libro di Alpharabius. Lo so, è un infedele, nel senso in cui lo intende la tua chiesa. Ovviamente era un libro tradotto e non so quanto fosse fedele all’originale>. Alfonso avrebbe voluto chiederle dove aveva avuto la possibilità di leggere l’opera di un autore che, non essendo cristiano, era proibito, ma non voleva interrompere il flusso del suo ragionamento perché conoscere i pensieri di Adelaide era per lui eccitante almeno quanto condividere con lei il piacere. <Certamente ricordi che Platone, nella sua “Repubblica”, dice che chi governa deve essere virtuoso, nel senso che deve saper utilizzare le proprie capacità dell’animo per il raggiungimento del bene comune – aveva ripreso la donna -. Più o meno Alpharabius dice la stessa cosa. Per Platone chi governa deve essere “il filosofo” così come per il pensatore arabo. Ma per quest’ultimo deve essere anche un profeta, una guida, un califfo, un imam, come lo chiamano loro, capace di interpretare criticamente la Legge che, nel caso specifico, è il Corano mentre per te è concentrata nel Nuovo e nel Vecchio Testamento. E questo perché per lui, come per il filosofo greco, alla verità si arriva attraverso la filosofia, che lavora proprio per “dimostrare la verità” e vincola la ragione. Ma siccome il popolo ha capacità limitate, lo dice Alpharabius e io lo condivido, allora serve una doppia strada per raggiungere la verità, una strada che possa percorrere anche il volgo. E questa strada è la religione. Lui non parla strettamente della religione islamica e, anzi, ammette dichiaratamente la possibilità che possa essere un’altra religione. Ecco la legittimazione della necessità della guida religiosa di una città o di uno stato per consentire a tutti di raggiungere verità e felicità. Se viene, però, a mancare il primo gradino della scala che consente di raggiungere il culmine del ragionamento, e cioè che la guida sia un filosofo, una persona che ha amore per il sapere, converrai con me che frana tutto. Insomma, la teocrazia, che altro non è se non un’aristocrazia di sacerdoti, diventa buon governo se i sacerdoti sono anche filosofi e quindi ricercano la verità e la felicità per tutti, ma si degrada in oligarchia se non sono filosofi e cercano solo la propria felicità>. Alfonso, sbalordito dalle considerazioni di Adelaide, si era trovato come raramente accadeva a corto di argomentazioni per contrastare, magari solo per fini accademici, tutto il ragionamento. <Chi sei veramente?> le aveva chiesto sbarrando gli occhi. E lei aveva risposto <In passato soltanto una prostituta che tra i suoi peccati annoverava anche quello del desiderio dell’eccellenza perversa in materia di filosofia e teologia, Alfonso. Adesso, temo, solo una donna innamorata alla quale la ragione si va offuscando perché invece di continuare a cercare la verità, che è felicità in senso completo e assoluto, cerca solo la propria felicità contingente>. Il prete sarebbe rimasto lì ad ascoltarla per ore, sorridendo al pensiero che entrambi si erano inoltrati in discorsi tutt’altro che romantici in quella situazione così particolare, entrambi nudi e abbracciati. Sapeva, invece, di aver rubato una quantità di tempo irragionevole ai problemi che doveva affrontare e di doversi alzare e vestire in fretta, di dover salire in sella al cavallo e di dover percorrere la strada che lo avrebbe riportato in cattedrale. Aveva detto ad Adelaide che si sarebbero visti lì il giorno seguente. Lei gli aveva risposto che se non l’avesse visto non si sarebbe preoccupata né gliene avrebbe fatto una colpa perché sapeva bene che il suo ruolo poteva impedirgli di tener fede alla promessa, anche se il suo cuore si sarebbe fermato fino a quando non lo avesse rivisto. Alfonso, guardandola mentre andava via tra i suoi due “angeli custodi”, l’uno nero e l’altro bianco, aveva pensato che al mondo non potesse esistere un’altra donna come lei e si era arreso al fatto che ogni appello alla sua proverbiale razionalità era ormai diventato inutile.

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[1] Aristotele, “Politica”

Capitoli V e VI – “Del matrimonio della muta e delle intemperanze del padre suo” e “Di una morte non rimpianta e del desiderio di eccellenza perversa”

comune96

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V e VI CAPITOLO
IV CAPITOLO

III CAPITOLO

II CAPITOLO

ORRORE PRIMO CAPITOLO

V CAPITOLO

(Del matrimonio della muta e delle intemperanze del padre suo)

Il giorno del matrimonio era arrivato. La cerimonia contrariamente al fidanzamento, era stata organizzata in cattedrale per volere del Vescovo. Ramperto aveva atteso il suo pupillo all’ingresso della chiesa, subito dopo il portale. Gusberto e Gismunda erano vestiti di rosso come voleva la tradizione. Nonostante le proteste di Gusberto, era stato il Vescovo a pagare l’abito della ragazza perché desiderava che nessuno potesse rimproverare il suo pupillo di eccessiva parsimonia e Carlo certo non poteva farsi carico di quella spesa. Gismunda era arrivata coi lunghi capelli sciolti, coperti come tutto l’abito da un velo bianco che, dopo lo scambio degli anelli, era servito a coprire anche lo sposo sotto un simbolico “unico tetto”. Al momento della comunione, Ramperto aveva spezzato una sola ostia e ne aveva dato metà alla moglie e metà al marito, che poi avevano bevuto il vino santo dallo stesso calice. Usciti dalla chiesa, la nuova coppia, i parenti e i pochissimi invitati erano andati a rendere omaggio ai morti nel retrostante cimitero. Nel sagrato la sorella e il cognato di Gismunda, coi loro figli, avevano tirato alla coppia manciate di grano, tradizionale auspicio di fertilità ed abbondanza. Gusberto, lasciando senza parole persino il Vescovo, aveva gridato di smetterla di lordare il suo matrimonio con sacrileghi riti pagani. Era stato lo stesso Ramperto, persa la pazienza, a esortarlo a non essere troppo rigido e a chiedergli di fare di quella giornata un’occasione di festa per tutti. In fin dei conti, gli aveva detto, a tutti i matrimoni c’era chi tirava grano agli sposi.
Giunti al camposanto per la tradizionale visita ai parenti defunti, Alfonso aveva trovato il modo di indicare a Maria la sepoltura della figlia Anna, sulla quale era stata sistemata una croce di ferro senza nome. La donna gli aveva sorriso con riconoscenza e lui l’aveva tirata da parte per dirle sottovoce che l’indomani, quando il marito fosse uscito di casa, lei e il figlio avrebbero trovato un uomo con un carro davanti alla porta della bottega. Li avrebbe portati in un’altra città dove sarebbero stati ospitati sotto falso nome e dove il ragazzo avrebbe potuto lavorare come aiutante di un mercante. Maria lo stava ringraziando quando lui le fece segno di fare silenzio perché, alle loro, spalle Ronalda era tutta tesa a cercare di capire cosa si stessero dicendo. La “pia donna” si era invitata da sola al matrimonio. Si era presentata sul sagrato della chiesa di buon mattino e, siccome Gusberto non aveva madre, si era offerta di portarlo all’altare. Il giovane ne era stato felice e per la prima volta Alfonso lo aveva visto sorridere. I due erano certamente molto simili, nonostante lei fosse ignorante e lui avesse studiato in seminario. Erano entrambi d’animo maligno ed entrambi erano eccessivamente rigidi su tutto quello che riguardava le cose di fede. Certo, non doveva essere lui, un prete, a rimproverare a Ronalda e Gusberto la cieca aderenza formale ai dettami della Chiesa, tuttavia non poteva fare a meno di pensare che un po’ più di umanità non avrebbe fatto male a nessuno dei due. Insomma, andava bene che la donna non si perdesse una celebrazione e che il ragazzo volesse fare dono della propria esistenza al Signore, ma nel Vangelo di Matteo non sta forse scritto forse “Amerai il prossimo tuo come te stesso”? La “pia donna” non avrebbe dovuto forse anche lei da fare i conti col Giudice divino per l’inosservanza del comandamento di non desiderare la roba d’altri, cioè la casa del proprio vicino? E Gusberto non ignorava ormai da anni il comandamento di rispettare il padre? Eppure entrambi erano convinti che la fine della povera Anna fosse stata in qualche modo giusta perché aveva fornicato, se non nella casa di Adelaide, certamente prima, quando era rimasta incinta. Erano sicuri che Beltramo avesse ricevuto solo ciò che gli spettava perché si era accompagnato a prostitute e, soprattutto, non aveva rispettato il padre. Che differenza c’era tra il comportamento di Beltramo e quello di Gusberto? <Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non t’accorgi della trave che è nel tuo?> scrive Luca nel suo Vangelo. Alfonso si era detto che il ragazzo era senza ombra di dubbio portato più a vedere le altrui pagliuzze che ad individuare le proprie travi. Non era forse per questo identico che lui stesso pensava che il suo peccato, l’amore per Adelaide, fosse un male minore rispetto ai peccati di Ronalda e di Gusberto? Chi era per giudicare l’operato altrui? Certo che se la “pia donna” avesse avuto qualche anno in meno sarebbe stata la moglie perfetta per il giovane. Il prete pensava che, invece, la povera Gismunda col marito alla quale si era appena condannata avrebbe avuto vita grama, ma sapeva anche che non sarebbe stata peggiore di quella che il padre le imponeva. Avrebbe avuto, quantomeno, una casa migliore di quella dove aveva vissuto fino a quel momento. Un pensiero dietro l’altro, un passo dopo l’altro, Alfonso era arrivato insieme al corteo nuziale dentro il convento, dove era stato allestito il banchetto. Si era curato di sedersi accanto a Carlo che fino a quel momento non aveva detto una sola parola, badando bene di non dare incomodo al figlio e di non fare niente che potesse metterlo in imbarazzo. Era soltanto un contadino, pensava di se stesso. Non si sentiva a suo agio. Il prete lo aveva capito sin dal primo momento. Arrivato sul sagrato prima del figlio, il major se ne era stato in un angolo e quando Gusberto era arrivato non si era mosso, ben sapendo che il ragazzo non avrebbe gradito il suo saluto. Alfonso aveva visto il padre commuoversi al momento dello scambio degli anelli e, di nuovo, quando erano arrivati davanti alla sepoltura della moglie, nel cimitero. Dalla bocca di Carlo, però, fino a quel momento, non era uscita una sola parola. Solo quando il prete gli aveva rivolto la parola per chiedergli come stesse – la prima cosa che gli era venuta in mente di dire tanto per attaccare discorso – il Major aveva annunciato ad Alfonso che aveva deciso che si sarebbe ritirato nei terreni che gli erano stati affidati dalla cattedrale in Val Polcevera. Aveva spiegato che in città non aveva più molto da fare e che soffriva troppo del fatto che il figlio si vergognasse di lui e del suo mestiere. Naturalmente avrebbe dato alla cattedrale il tempo per trovare la persona giusta che lo sostituisse. Il segretario del vescovo lo aveva capito perfettamente e gli aveva detto che avrebbe fatto di tutto per aiutarlo ad abbandonare il suo incarico il prima possibile.
Il pranzo era proseguito in un’atmosfera irreale. I bambini, che volevano giocare, erano stati sgridati da Gusberto che li aveva costretti a stare seduti davanti alle assi di legno poggiate sui cavalletti sul quale erano poggiate
le vivande e così, dopo aver pianto un po’, si erano addormentati sulle panche. Carlo mangiava lentamente, gli occhi fissi sulle mani unte con cui si portava il cibo alla bocca avidamente, gustando ogni boccone di un pranzo che così ricco che non l’aveva mai nemmeno immaginato. Sui tavoli erano state depositate diverse portate: un’intera coscia di vacca strofinata con l’aglio e arrostita, un maialino anch’esso arrostito, carne di pecora in stufato con le spezie e diverse anatre cucinate nelle maniere più disparate. E poi pane bianco in quantità Infine dolci alle mandorle e alle nocciole preparati dalle suore, così buoni che il major ne maginò una quantità irragionevole. Il tutto annaffiato da abbondanti quantità di vino bianco della Val Polcevera, lo stesso che avrebbe prodotto con la sua vigna quando si sarebbe trasferito nel suo manso.
Maria e la figlia maggiore parlottavano mentre Martino e il cognato si erano buttati sul cibo e sembrava non ne fossero mai sazi. Certamente la donna più anziana informava l’altra della sua partenza, fissata per il giorno seguente.
Lo sposo, come sempre, mangiava poco per mortificare la carne e trascorreva il suo tempo passando in rassegna i volti di tutti, analizzando ogni gesto. Spesso dialogava con Ronalda ed era evidente che insieme censuravano l’atteggiamento di ognuno dei commensali. Gismunda, seduta accanto al marito, non aveva toccato cibo. La sera prima la madre e la sorella le avevano spiegato gli obblighi della moglie, che lei ignorava e adesso era molto spaventata. Non le piaceva l’idea che Gusberto le mettesse le mani addosso, ma d’altro canto ben sapeva fin da quando l’aveva chiesta in moglie che sarebbe stato così. Quando il padre desiderava la madre, non badava se ci fossero i figli nella stanza. Da Anna, quando parlava del suo Seamus, e dalla sorella maggiore, quando parlava del marito, aveva capito che fare l’amore era una cosa bella, uno scambio di affetto e di calore prima ancora che di piacere. Ma quando suo padre si gettava sulla madre, che qualche volta tentava di divincolarsi e cedeva solo quando il marito la picchiava oppure subiva piangendo, a Gismunda non sembrava affatto che quella cosa potesse essere piacevole. Forse era perché le sue sorelle l’amore se l’erano scelto mentre la madre, così come stava succedendo a lei, aveva dovuto accettare l’uomo che altri avevano scelto per lei.
Il Vescovo, dal canto suo, a ogni portata e ad ogni brindisi (e partecipò davvero a tanti) augurava alla coppia prosperità, certamente immaginando già di tenere sulle ginocchia i figli di Gusberto. Consalvo da quando si era seduto continuava a mangiare e soprattutto a bere. Dopo l’ennesima coppa di vino si era alzato e si era avvicinato al Vescovo. Aveva poggiato la sua mano unta sulla spalla di Ramperto mentre questi lo guardava con sguardo incredulo e gli aveva detto che ormai erano parenti e che era venuto il momento che si parlasse si affari. L’alto prelato aveva recuperato il sangue freddo e aveva risposto che no, non era quello il momento di discuterne. Allora il mercante di pece si era scagliato contro di lui bestemmiando. Erano intervenute le guardie e anche il genero del mercante, al quale non era parso vero di assestare due vigorosi pugni nello stomaco dell’odiato suocero. La festa era finita e le guardie avevano portato l’ubriaco in cella. Gusberto aveva detto loro di tenercelo fino a quando avesse recuperato lucidità poi aveva invitato tutti ad andarsene perché era ora che lui e la moglie si avviassero verso la nuova dimora. Ma Ramperto aveva spiegato che mancava ancora la benedizione del letto nuziale e quindi gli ospiti si erano mossi in corteo verso le Vigne. Tutti meno Carlo, che riteneva conclusi in quel momento i suoi doveri nei confronti del figlio e per questo se ne era tornato a casa finalmente libero di sognare la sua nuova e serena vita agricola che immaginava ben lontana dal ragazzo e dai doveri nei suoi confronti.
La “pia donna”, che camminava al fianco di Gusberto quasi ne fosse la sposa, mentre la moglie era stata lasciata indietro, diceva al futuro prete quanto fosse stato orribile per lei udire il turpiloquio di quel blasfemo ubriaco e che comprendeva bene quanto dovesse essere stato disgustoso per lui udire quanto suo suocero era arrivato a dire. Alfonso nel frattempo aveva preso sotto braccio la povera Gismunda che con le sue scarpette nuove stava faticando a tenere il passo e la stava sosteneva nel cammino sulla strada dissestata. Stando a pochi metri dallo sposo e dalla beghina, aveva udito ogni parola, anche quando Ronalda aveva detto a Gusberto che quello di Consalvo era un peccato capitale, <uno dei più terribili perché offendeva direttamente Dio>.

<È inaudito – aveva ripetuto la donna almeno quattro o cinque volte -. È stato nominato il nome di Dio invano e per di più sotto il tetto del Vescovo. Chi non rispetta il comandamento merita una punizione esemplare perché è morto agli occhi di Dio>.

Il ragazzo le aveva risposto che il Signore avrebbe prima o poi presentato il conto a chi non lo rispettava e che quel conto sarebbe stato molto salato, poi aveva aggiunto di non pensarci, che quello era il momento di visitare la nuova casa e che siccome lei lo aveva portato all’altare come una madre, sarebbe stata anche la sua casa, in qualsiasi momento avesse voluto. A Ronalda non era parso vero di aver conquistato il permesso perpetuo di impicciarsi degli affari della nuova coppia, di entrare nella casa per vedere ogni cosa e poi raccontarla a tutti. Avrebbe rivelato ogni particolare, ma piano piano, facendosi pregare e facendo morire d’invidia e di curiosità le altre donne alle quali avrebbe spiegato – nel caso non se ne fossero avvedute – che solo lei, oltre ai parenti più stretti, probabilmente nemmeno tutti, era ammessa nella casa del pupillo del Vescovo. Alfonso aveva chiesto a Gismunda se avesse ascoltato la conversazione tra il marito e la “pia donna” e lei aveva fatto cenno di sì con la testa. Allora lui le aveva detto che se Ronalda fosse diventata troppo invadente avrebbe dovuto riferirglielo: avrebbe pensato lui a tenerla al suo posto. Gismunda gli aveva sorriso e gli aveva accarezzato una mano: non aveva altro modo per ringraziarlo.

Il piccolo corteo era arrivato alla casa, vicino alla chiesa. Tutto era stato completamente portato a nuovo. La dimora aveva molta terra coltivata a vigna, un orto, diverse stanze ampie distribuite su un solo piano e un chiostro con le colonne come quelli dei conventi. C’erano una cucina molto grande con un camino enorme e la stufa. La camera matrimoniale era ampia e rivolta a sud. C’erano, poi, diverse camere che nel cuore del Vescovo erano già destinate ai “nipotini” e persino uno spazio luminoso dove tessere e ricamare e un grande studio con una biblioteca già piena di libri. Era questo il regalo più bello e prezioso di Ramperto al suo figlioccio. Nelle cassapanche erano stati sistemati abiti nuovi anche per Gismunda. Di questo si era occupato Alfonso chiedendo consulenza ad Adelaide. In una casa più piccola, lì a fianco, erano già stati alloggiati i servi che avevano accolto i nuovi padroni e i loro ospiti. Dopo la benedizione del letto, il Vescovo aveva dato appuntamento a Gusberto sette giorni dopo, data stabilita per la sua ordinazione a sacerdote. Poi ognuno era tornato alla propria casa. Il giovane marito aveva preso per i polsi la moglie e lei, terrorizzata, aveva pensato <Ecco, ci siamo… Mi spoglierà e mi metterà le mani addosso. Sarò costretta a subire come per anni ha subìto mia madre>. Ma lui non l’aveva portata nella camera matrimoniale. L’aveva trascinata, invece, in una delle altre camere. Le aveva indicato il letto e lei si sentì scossa da un brivido di terrore.

<Tu dormirai qui – le aveva detto, invece, il marito -. Ti farò portare le casse coi tuoi vestiti. I tuoi doveri di moglie si limitano a controllare che i servi facciano bene il proprio lavoro. Per il resto, fai quello che vuoi. L’importante è che quando sarò prete tu partecipi a tutte le funzioni religiose, seduta in fondo alla chiesa in segno di umiltà. Non saranno poi molte le celebrazioni perché questa chiesa non è parrocchia. È fondamentale che tu non ti intrattenga con i servi che per il tempo strettamente necessario, che non ti vesta in modo sconveniente e che non entri nella biblioteca e nella mia stanza se non con me e col mio permesso. Mi sembra superfluo raccomandarti di non parlare mai della tua vita, visto che ti ho scelto perché sei muta, ma ti ordino di non fare mai capire a nessuno in alcun modo che tu ed io non avremo bambini perché non abbiamo rapporti carnali. No, non ne avremo. Tutti dovranno credere che sia tu a non potere avere figli e diranno che io sono un uomo molto buono e comprensivo a non chiedere l’annullamento del matrimonio. Questo è il patto. Tu vivrai da signora, tuo padre non ti picchierà più. I tuoi parenti non potranno mettere piede in questa casa, ma se vorrai, quando avrai terminato di dare le disposizioni ai servi e avrai sorvegliato che abbiano svolto bene il proprio lavoro, potrai andare a trovare la tua famiglia. Se hai capito e ti sta bene fai cenno di sì con la testa>. Gismunda aveva sorriso incredula. Gusberto parlava a voce alta, scandendo bene le parole e indicandosi le labbra anche se lei era muta e non sorda e questo lui lo sapeva. La giovane moglie aveva fatto il cenno richiesto e poi a gesti aveva cercato di far capire al marito che poteva udire benissimo, ma lui si era già voltato ed era uscito dalla porta. Poi si era fermato, si era voltato verso di lei e le aveva fatto segno con le mani di aspettare lì, dicendo, sempre ad alta voce, che i servi le avrebbero portato subito le sue cose. Disse che si sarebbero visti il giorno dopo a pranzo, non prima. Quindi se ne era andato definitivamente e Gismunda era felice. Non poteva chiedere di più. In capo a pochi minuti i servi avevano appoggiato ben quattro cassapanche sul pavimento. Erano usciti e al loro posto era arrivata una ragazza che le aveva detto di essere lì per aiutarla a svestirsi. La giovane moglie non capiva perché qualcuno dovesse aiutarla a togliersi l’abito. Non era mai servito. Mentre la serva scioglieva i fiocchi che tenevano chiusa la tunica pensò, però, che in fondo quella vita poteva anche piacerle. Dicendole che l’aveva scelta solo perché era muta, Gusberto, in qualche modo, l’aveva offesa. Ma era nulla in confronto alle ingiurie e alle percosse del padre. La ragazza non capiva per quale motivo il marito non volesse avere unioni carnali con lei dopo aver chiesto di sposarla, ma non era importante. Quello che contava era che non avrebbe più patito la fame. Anzi, forse sarebbe riuscita anche a sottrarre un po’ di cibo da portare alla madre. Doveva rinunciare per sempre all’amore e ai figli, ma sarebbe stato peggio se l’avessero sposata a un uomo come suo padre. Se avesse potuto diventare la moglie Rachis, che abitava vicino a lei e che era bello e forte, allora sì che sarebbe stata felice. A parte qualche sorriso, a parte quel bacio rubato, però, lui non si era mai fatto avanti, forse per paura di Consalvo o forse perché sapeva che non aveva dote. La sua prospettiva, prima che in casa sua apparisse il padre di Gusberto, era quella di vivere da sola e in miseria per sempre, se il padre in un giorno in cui fosse stato più ubriaco del solito, non l’avesse ammazzata.

Il sole stava tramontando e Gismunda, rivestita con una calda e morbida tunica da notte, aveva deciso di posticipare all’indomani l’apertura delle cassapanche e di provare subìto quel letto che sembrava molto confortevole. Aveva sempre riposato su un pagliericcio e quel materasso le era sembrato meraviglioso. Aveva passato le mani sulla coperta di lana, poi sul ruvido e profumato lenzuolo di lino. Aveva tastato il cuscino di piume. Si era già infilata sotto le coltri sfilandosi le morbide babbucce da casa e in quel momento la serva era entrata per abbassare i tendoni. Gismunda aveva notato solo in quel momento che le finestre non erano aperte come a casa dei suoi genitori, ma coperte di tanti piccoli vetri tenuti insieme da venature di piombo che sembravano quelle di una foglia. La serva ora aveva anche acceso il fuoco. Non avrebbe nemmeno più sofferto il freddo. Gismunada si era addormentata guardando le fiamme che danzavano nel camino. Il suo ultimo pensiero, prima di cadere in un sonno senza sogni, era stato per la povera Anna.

VI Capitolo

Di una morte non rimpianta e del “desiderio di eccellenza perversa”

Demetrio aveva avuto un “battesimo del comando” davvero brusco e poco piacevole. Lo avevano svegliato prima che facesse chiaro e si era subito reso conto di aver assunto l’agognato incarico di comandante delle guardie nel momento sbagliato. Era stato nominato, infatti, appena qualche giorno prima per sostituire in fretta Ariperto che a causa della morte del figlio sembrava irrimediabilmente uscito di senno.
Uno degli uomini della guardia notturna alle mura bussava alla porta gridando che era stato commesso un altro omicidio, il terzo in pochi giorni. Lui, di fronte a questa circostanza inattesa e complessa, non sapeva come comportarsi e allora aveva deciso di andare a sua volta a bussare a una porta. Quella dell’attendente del Vescovo. Anche Alfonso, quindi, aveva avuto un brusco risveglio. I colpi assestati da Demetrio alla porta della sua stanza lo avevano scosso dal torpore in cui era appena scivolato dopo una notte insonne. Si era svegliato e aveva alzato gli occhi al cielo mormorando <Che altro succede, adesso?>. Poi, poggiando i piedi sul pavimento freddo, aveva raggiunto la porta, l’aveva aperta e aveva detto a Demetrio e alla guardia che l’accompagnava di entrare e di chiudere l’uscio alle loro spalle. Si era seduto sul letto per infilarsi i calzari e quindi si era avvicinato al camino per aggiungere legna e far ripartire il fuoco che covava sotto la cenere. I due militari si erano stupiti che il prete non prestasse loro attenzione e non avevano il coraggio di parlare.
<Venite avanti – aveva detto Alfonso – e spiegatemi che succede mentre cerco di svegliarmi>.
<Ecco, vedete, come dire?… – aveva balbettato Demetrio -. Sì… insomma…, c’è un altro morto>. Il segretario del Vescovo aveva appoggiato la schiena alla sedia e aveva tirato un lungo sospiro gettando indietro la testa. Con gli occhi chiusi aveva esortato i due a continuare. <Durante un pattugliamento fuori dalle mura, al di là della Porta Superana – aveva attaccato la guardia -, i miei due compagni ed io abbiamo trovato il cadavere di un uomo che puzzava di vino come se fosse caduto in una botte, col cranio spaccato>.
<Mi svegliate per un ubriaco che è inciampato e si è spaccato la testa?> aveva chiesto Alfonso, senza spazientirsi, ben sapendo che doveva esserci dell’altro. E che si sbrigassero a dirglielo!
<Signore, il cadavere ha uno sfregio sulla fronte. A forma di croce>.
Il prete si era alzato mormorando <“Non nominare il nome di Dio invano”. E addio Consalvo>.
<Cosa avete detto, Signore?> aveva risposto Demetrio, che non aveva capito che il nome del defunto e si era stupito che Alfonso lo sapesse, visto che lui non glielo aveva detto.
<Non è importante – aveva risposto il prete -. Non stavo parlando con voi, Aspettatemi fuori dalla stanza>.
Non era ancora finita la seconda vigilia e uscire dalle coperte all’umido di una notte d’autunno quando il fuoco stentava a scaldare la stanza non è piacevole. Alfonso aveva gettato appena le punte delle dita nel bacile di acqua gelida e se le era passate sommariamente sugli occhi. Quindi si era vestito e si era preparato a scalare il colle. Proprio in quel momento si era reso conto che stava piovendo ed era tornato indietro per cambiarsi i calzari. Demetrio, investito della responsabilità del suo primo caso di omicidio, stava tremando come una foglia. Alfonso, invece, percorreva la strada a grandi falcate, curioso di capire chi fosse, questa volta, il morto e se, cioè, la sua ipotesi avrebbe trovato riscontro. Non faticò a riconoscere il padre di Gismunda e di Anna anche col cranio fracassato. Aveva ordinato che lo portassero in cattedrale e, questa volta da solo, si era diretto verso la bottega della famiglia. Era entrato nel magazzino, ma prima di salire la scala aveva pensato che non era giusto svegliare quella povera donna e suo figlio. Allora si era seduto per terra, con le spalle appoggiate a un barile di pece e lì si era riaddormentato. In quella posizione, avvolto nel mantello, si era stupito di trovarlo alla ora seconda il giovane Martino, che non sapeva ancora di essere orfano di padre. Come immaginava, né il giovane né la madre si erano stracciati le vesti per la morte del mercante violento. Il prete non si stupì del senso di sollievo che entrambi manifestavano. Potevano, così, evitare la fuga già programmata per quella mattina e potevano finalmente pensare a un futuro migliore, senza violenze, senza botte, senza cattiverie. Martino si era messo al lavoro con allegria. Avrebbe consegnato la merce come era previsto, in mattinata. <Nel pomeriggio, invece, visiterò tutti i clienti che rifiutavano di comperare da mio padre a causa degli sgarbi che aveva fatto loro o, peggio, delle fregature che gli aveva rifilato. Sono certo di riuscire a migliorare gli affari della bottega>.
<Bene, per quanto riguarda la Cattedrale, tutte le forniture sono già tue. Passa domani per trattare quantità e prezzi> aveva risposto Alfonso, che poi si era incamminato verso la Cattedrale cercando di riflettere su quanto era accaduto. Certamente non mancavano i potenziali responsabili per l’assassinio di Consalvo: tutti i membri della famiglia, i clienti truffati, tutte le persone con le quali aveva litigato, i vicini di casa stanchi delle sue cattiverie. Ma la croce sulla fronte del morto parlava chiaro: qualcosa legava la morte di Anna, di Beltramo e del mercante. Questa volta però, per fortuna, l’assassinio non ci poteva collegare in alcun modo ad Adelaide. A meno che Consalvo non frequentasse qualcuna delle prostitute della casa. Per togliersi il dubbio Alfonso si era premurato, una volta fatto ritorno a San Siro, di inviare immediatamente uno dei suoi servi al mercato per inviare un messaggio alla donna. L’appuntamento era all’ora sesta al solito posto. Pioveva come mai era accaduto, almeno non quanto Alfonso potesse ricordare. Adelaide era arrivata puntuale, scortata dai due uomini che aveva assoldato per difendersi. Uno era un marinaio siciliano sbarcato da una nave carica di vino. Come spesso accadeva ai marinai, si era invaghito di una delle prostitute della casa. Poco importava che al suo paese avesse già moglie e tre figli. Non sarebbe più tornato lasciando libera la sua famiglia di credere che fosse morto in mare, durante una burrasca. Adelaide non si fidava di lui, perché chi tradisce una volta tradisce per sempre, che sia la moglie o la padrona, ma fino a quando fosse stato invaghito di Nura, bella prostituta d’origine egiziana, poteva stare tranquilla.
L’altro sgherro era invece un enorme africano dalla pelle nerissima e con la testa rasata che parlava poco il latino e meno ancora la lingua di Genova, ma era sveglio e, soprattutto, fortissimo. La donna aveva detto loro di ripararsi in una casa abbandonata che stava lì vicino. La struttura di pietra, coperta dalle piante, aveva ancora il tetto e il camino. I due avrebbero potuto anche accendere un fuoco per scaldarsi. Così aveva fatto il siciliano, mentre il moro si era piantato a gambe larghe davanti alla porta, sotto la pioggia, fedele al suo compito di proteggere la padrona. Adelaide era entrata invece, nell’altra casa che aveva le finestre sbarrate con tavole di legno perché nessuno potesse vedere all’interno. Alfonso aveva già acceso il fuoco e ora stava seduto su una panca, con le gambe accavallate e le dita delle mani intrecciate attorno a un ginocchio.
Come aveva visto entrare Adelaide si era alzato in piedi. Lei aveva tirato indietro la testa per fare scivolare il cappuccio e aveva scoperto i capelli lunghissimi e bagnati mentre i riccioli che le si incollavano al viso. Aveva poi sganciato la spilla d’oro col cavaliere che chiudeva il mantello e lo aveva steso davanti al fuoco perché si asciugasse. Anche la tunica era bagnata e le aderiva al corpo. Aveva staccato le maniche sfilando i bottoni dalle asole che le tenevano unite all’abito e si era tolta i calzari zuppi. Aveva fatto tutto in pochi secondi, senza curarsi di Alfonso che stava in piedi davanti a lei. Solo quando si era tolta l’ultima calza e aveva messo a posto la tunica che aveva alzato per sfilare tutto ciò che poteva mettere ad asciugare, si era resa conto che l’uomo aveva assistito ad ogni suo movimento. Aveva visto le sue braccia scoprirsi e Adelaide lottare con la stoffa bagnata che aderiva alla pelle. Aveva guardato le mani della donna correre veloci sotto la tunica, scoprendo le cosce, ad arrotolare e calare le calze. Aveva infine sospirato quando era rimasta a piedi nudi. Solo in quel momento la donna aveva capito di aver fatto qualcosa di sconveniente. Non per l’inosservanza delle regole della Chiesa sulla pudicizia, delle quali non si curava ormai da molto tempo, ma perché sapeva di aver sottoposto Alfonso a una tortura che non avrebbe voluto infliggergli. Lui se ne stava lì, come fosse di pietra, a guardarla con gli occhi sbarrati come un bimbo guarda un dolce che non può toccare. <Scusami, non dovevo> aveva detto Adelaide. E solo in quel momento lui era riuscito a scuotersi da quell’incanto in cui i movimenti della donna lo avevano coinvolto e trascinato. <Non importa, non l’hai fatto apposta> aveva risposto il prete cercando di controllare l’erezione che ormai era evidente sotto la tunica. Per questo si era seduto al tavolo, accavallando di nuovo le gambe, ma questa volta con un grande senso di fastidio. Aveva poi chiesto alla prostituta di sedersi di fronte a lui e le aveva offerto un pezzo di pane appena tagliato. Aveva pensato che il modo migliore per superare l’imbarazzo fosse quello di entrare alla svelta nella discussione. Aveva detto ad Adelaide della morte del mercante di pece e le aveva chiesto se per caso fosse cliente di una delle sue ospiti. Adelaide aveva risposto che non le risultava e che, comunque, non era mai entrato nella sua casa. Il prete ne fu felice perché questo significava che lei non era il bersaglio principale dei misteriosi uccisori, anche se la sua attività, le ricordò la rendeva comunque un soggetto ad alto rischio, visto che in città si muoveva qualcuno che si stava arrogando il diritto di sostituirsi alla mano di Dio. <Ascoltami, – aveva detto Alfonso -. Io non so chi sia l’assassino, ma credo di aver capito quale sia il filo che collega gli omicidi. L’ho capito ieri, ascoltando Gusberto e Ronalda che dicevano le loro solite sciocchezze. Chiunque sia l’autore degli omicidi, perseguita chi ritiene colpevole di aver contravvenuto a uno dei dieci comandamenti. Anna, secondo le categorie dell’omicida, aveva commesso atti impuri. Anche se non si trattava propriamente di adulterio, comunque aveva concepito un figlio fuori dal matrimonio. Chiunque l’abbia vista entrare in casa tua può aver pensato che si apprestasse a diventare una meretrice. Beltramo, secondo Ronalda, non rispettava il padre e la madre. E Consalvo, proprio ieri, al banchetto, ha bestemmiato davanti al vescovo>. Adelaide gli aveva risposto che allora l’assassino doveva essere proprio uno dei presenti alla festa. Alfonso le aveva spiegato che c’erano anche molti servi e che uno chiunque poteva aver riferito all’esterno un episodio che, certamente, era degno di essere raccontato: il padre della sposa che bestemmia allo sposalizio del pupillo del Vescovo! Aveva aggiunto che il mercante era solito imprecare e che qualsiasi abitante della città, nel corso degli anni, aveva avuto l’occasione di sentirlo snocciolare le bestemmie più diverse e terribili. <Nonostante i possibili colpevoli di questo ultimo omicidio siano praticamente infiniti – aveva aggiunto il prete – devo dire che un sospetto su Gusberto l’ho avuto. E se non fosse una donna, troppo debole per commettere quegli efferati omicidi, sospetterei anche Ronalda. Perché il ragazzo, che intende le Scritture e i libri sacri alla lettera, è intollerante verso qualsiasi tipo di “trasgressione”. Potesse, lui metterebbe tutti i peccatori alla forca, anche i bambini che sognano un dolce, colpevoli di desiderare di commettere un peccato di gola. L’altra, poi, gli dà corda, lo fomenta, lo aizza. È stata lei a suggerire di non seppellire Anna in terra consacrata. I due, ieri, parlavano di giustizia divina. Lui ha detto che sarebbe arrivata puntuale a punire Consalvo in modo terribile. Gusberto sapeva poco o niente di Beltramo, ma potrebbe essere stata lei a parlargliene. Potrebbero usare dei sicari>. Adelaide aveva suggerito, a quel punto, di tentare di prevedere il prossimo omicidio e di cogliere i colpevoli sul fatto. Ma Alfonso aveva risposto che non era così facile, perchè non era detto che gli assassini compilassero il proprio elenco solo secondo i comandamenti, che comunque non stavano seguendo in ordine. <Potrebbero anche seguire i peccati capitali – aveva detto la donna -. E in questo caso avrebbero ucciso Beltramo perché ha rifiutato di entrare nelle guardie per suonare il suo flauto e si è reso quindi colpevole di accidia; Consalvo per l’ira con la quale ha ogni giorno gestito i suoi rapporti con gli altri e Anna per la lussuria. Rimarrebbero, quindi, l’invidia, la superbia, l’avarizia e, appunto, la gola. L’unica cosa certa, fino ad ora, è che i tre omicidi sono legati dal segno sulla fronte>.
<Non pensare al nostro modo di indicare i peccati capitali, ma alle sette cose che Dio ha in odio secondo i “Proverbi”> aveva aggiunto Adeladie, che quel punto stava visibilmente tremando a causa del freddo. I vestiti umidi che aveva ancora addosso le stavano dando i brividi. Allora Alfonso aveva messo altra legna nel fuoco e le aveva suggerito di togliere gli abiti e indossare il mantello, che nel frattempo si era asciugato. <Vedi, io mi giro dall’altra parte> aveva detto voltandosi contro il muro. E allora la donna si era spogliata, tenendo solo la fascia bagnata sulla fronte, e aveva steso la tunica ad asciugare. Il prete aveva visto la sua ombra spogliarsi, proiettata sulla parete dalla luce delle fiamme e, se possibile, era stato peggio che averla davanti. Infine Adelaide si era avvolta nel lungo mantello e si era seduta per terra davanti al fuoco, ma continuava a tremare. L’uomo le aveva portato un bicchiere di vino e si era seduto col suo calice accanto a lei. Era stato in quel momento che la donna gli aveva detto che se non lo avesse amato veramente e non lo avesse rispettato anteponendolo a se stessa, in quel momento si sarebbe stretta a lui, gli avrebbe chiesto di abbracciarla per aiutarla a sconfiggere il freddo che si sentiva dentro, un freddo che non veniva solo dalla pioggia che le aveva bagnato gli abiti, ma era una condizione immateriale nella quale da troppo tempo si trovava. Gli aveva sussurrato <L’amore è paziente, è benevolo; l’amore non invidia; l’amore non si vanta, non si gonfia, non si comporta in modo sconveniente, non cerca il proprio interesse, non s’inasprisce, non addebita il male, non gode dell’ingiustizia, ma gioisce con la verità; soffre ogni cosa, crede ogni cosa, spera ogni cosa, sopporta ogni cosa>.
Ad Alfonso, che la sapeva nuda sotto il mantello e che lottava per non immaginarla senza vestiti, non era venuto in mente nient’altro che il Cantico dei cantici di Salomone che, quando era in seminario, gli aveva sollecitato fantasie erotiche ed era stato origine di tante notti insonni a lottare tra il desiderio del piacere e l’obbligo di mantenere la purezza. Mentre guardava Adelaide rannicchiata sotto la stoffa, le ginocchia strette al petto, gli occhi puntati sul fuoco, aveva iniziato ad accarezzarle il volto con l’indice della mano destra recitando <Come sei bella, amica mia, come sei bella! Gli occhi tuoi sono colombe, (…) Come un nastro di porpora le tue labbra e la tua bocca è soffusa di grazia; come spicchio di melagrana la tua gota attraverso il tuo velo>.
<Sul mio letto, lungo la notte, ho cercato l’amato del mio cuore; l’ho cercato, ma non l’ho trovato> aveva risposto la donna, con la voce che per l’eccitazione le si era fatta bassa e roca. Anche lei, si era stupito il prete, conosceva “il Cantico” a memoria.
<Come la torre di Davide il tuo collo, costruita a guisa di fortezza. Mille scudi vi sono appesi, tutte armature di prodi> aveva proseguito Alfonso facendo calare la sua mano lentamente, fino alle spalle di Adelaide, sotto il mantello. Poi non era più riuscito a fermare i suoi stessi gestu e aveva permesso alle sue dita che continuassero senza più freni nel loro cammino sul corpo della donna.
<I tuoi seni sono come due cerbiatti, gemelli di una gazzella, che pascolano fra i gigli – aveva continuato recitando le parole del Re Salomone con la stessa lentezza con la quale misurava i gesti per goderli completamente -. Prima che spiri la brezza del giorno e si allunghino le ombre, me ne andrò al monte della mirra e alla collina dell’incenso. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano, circondato da gigli (…). La tua statura rassomiglia a una palma e i tuoi seni ai grappoli. Ho detto: “Salirò sulla palma, coglierò i grappoli di datteri”>. Non era stata Adelaide, che pure di queste cose era esperta, a scrollarsi dalle spalle il mantello e a spogliare Alfonso. Lui aveva fatto tutto da solo e con una sola mano, come non avesse mai fatto altro nella vita, mentre con l’altra continuava a esplorare ogni angolo del corpo della donna, ad accarezzarlo dolcemente e un secondo dopo a prenderne a piene mani, quasi con violenza. Se mai qualcuno avesse potuto assistere a quella scena, mai avrebbe potuto immaginare che lei era la prostituta e lui l’apprendista del sesso. Finalmente nudo, Alfonso si era gettato su Adelaide. Provava piacere a sentire sotto il proprio corpo ogni centimetro della pelle della donna e a intuire dai brividi che la scuotevano che anche lei lo provava. Si era avventato sulla sua bocca e in quel momento lei si era lasciata andare. Non si era limitata a lasciarlo fare, ma lo aveva baciato come se dovesse consumare in quei pochi minuti tutto il piacere che le era riservato da lì all’eternità. Alfonso aveva pensato di non riuscire più a respirare e gli era passato per la mente che sarebbe stato piacevole morire in quel preciso momento e non pensare più ad altro. Si era staccato appena un attimo per prendere fiato e per continuare a recitare sussurrando <Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa, c’è miele e latte sotto la tua lingua e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano>.
<Il tuo palato è come vino squisito, che scorre dritto verso il mio diletto e fluisce sulle labbra e sui denti – aveva risposto lei, con una voce che non era più di un sussurro e che al prete sembrava venisse non dalla sua bocca, ma dal più profondo del suo corpo -. Io sono per il mio diletto e la sua brama è verso di me. (…) Levati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino si effondano i suoi aromi. Venga il mio diletto nel suo giardino e ne mangi i frutti squisiti>.
Alfonso aveva sperato di riuscire a fermarsi in tempo, di non arrivare a penetrare Adelaide, di evitare che il peccato di entrambi fosse completo. E invece in quel momento non riusciva a desiderare altro che farla sua fino in fondo, a riempirla con il suo seme mentre le gambe della donna gli stringevano la schiena. Le aveva chiesto se davvero voleva fare l’amore con lui e lei rispose il suo “sì” con la voce flebile di una vergine spaventata. Sapeva che avrebbe potuto metterla incinta, sapeva che sarebbe stato dannato per sempre, sapeva che stava facendo del male a quella donna che amava come non ne aveva mai amate altre, ma in quel momento era più forte il desiderio di possederla. Lei inarcava la schiena, ansimava, lo chiamava, gli diceva di continuare e che nessun uomo l’aveva mai fatta godere tanto. Un momento prima del piacere più grande, lei gli aveva detto <Ti amo, Alfonso>.
Nonostante fosse tutto finito, il prete era rimasto dentro di lei fino a quando aveva potuto, prima sfinito, abbandonato sul corpo della donna, poi tirandosi su sui gomiti e accarezzandole i capelli. Infine le aveva sussurrato piano piano in un orecchio, come se nella stanza ci fosse qualcuno che non dovesse sentire <Son venuto nel mio giardino, sorella mia, sposa, e raccolgo la mia mirra e il mio balsamo; mangio il mio favo e il mio miele, bevo il mio vino e il mio latte>. Lei aveva sussultato per l’ultima volta, come se il suo corpo ascoltasse l’eco del piacere appena provato, un riflusso dei brividi della passione, e poi lo aveva abbracciato. Anche lui lo aveva fatto e aveva sentito sulla sua schiena le cicatrici delle frustate che avevano martoriato la pelle. In quel momento Alfonso si immaginava identico ai preti che erano stati clienti della donna e avevano permesso, pur di non pagare di persona, che il corpo della prostituta venisse devastato. Non voleva che pensasse che anche lui avesse approfittato di lei. Adelaide non lo aveva sedotto, era stato lui a prenderla quando la sua forza di volontà che credeva invincibile aveva ceduto. Allora si era schiarito la voce e le aveva detto col tono solenne di un bimbo che si dichiari alla compagna di scuola, conscio che quanto stava accadendo era più grande di lui: <Io ti amo e sono pronto a lasciare la mia posizione, se è necessario, pur di stare con te>. Lei, per tutta risposta, era scoppiata a ridere perché quella dichiarazione così seria fatta da un uomo nudo non poteva che diventare buffa. <Non preoccuparti, Alfonso – gli aveva detto -. Se è il complesso di colpa che ti fa parlare in questo modo, ricorda che non sono una ragazzina e che quanto è successo l’ho voluto anche io. Ti ho già detto che da anni non conosco uomo. Ora ti dico che non ho mai fatto l’amore perché non ho mai amato nessuno prima di te. Fino al giorno in cui ti ho conosciuto ho odiato tutti gli uomini e ancor di più quelli delle gerarchie della Chiesa. Il perché lo puoi leggere sulla mia schiena e sulla mia fronte. Voglio che tu sappia che da me non avrai mai problemi, che mai ascolterai rivendicazioni o recriminazioni che escano dalla mia bocca e voglio che tu sappia anche che non credo di poterti dare dei figli perché altrimenti sarei rimasta incinta mille volte e invece non é mai successo. Se faremo ancora sesso, tu ed io, non sarà per procreare, ma solo per piacere e per amore e questo sono certa che la tua religione lo vieti. Ti sia chiaro che se nei prossimi giorni dovessi pentirti di quello che hai fatto, per quello che mi riguarda sarà come se mai nulla fosse successo. Credo che se ti portassi via al tuo dio non saresti un uomo felice. Vedi se riesci a farci convivere nel tuo cuore senza soffrire. Di una cosa sola ti prego. Se devi dire basta, fallo in fretta. Non fare come Agostino, il tuo Sant’Agostino, che ha ripudiato la sua povera concubina privandola anche del figlio che insieme avevano avuto e cancellando con una sola parola anni di vita insieme>. Alfonso non aveva trovato altra risposta che baciarla e gettarsi di nuovo su di lei, pronto a ricominciare a godere del contatto di ogni centimetro della sua pelle. Adelaide lo aveva stretto forte, poi erano rotolati sul pavimento ridendo e lei gli si era messa a cavalcioni, badando bene a farlo entrare completamente dentro di sé. Si tenevano vicendevolmente serrati per gli avambracci e Alfonso, con le sue mani grandi e forti anche se delicate come chi ha maneggiato solo libri nella vita, faceva in modo che lei non potesse distanziarsi più di tanto e che potesse far leva, in quel modo, su di lui. Adelaide si era chinata a baciarlo e quindi aveva fatto scivolare la sua lingua fino ai suoi capezzoli. A quel punto il prete non aveva capito più nulla ed aveva raggiunto un piacere del quale ignorava l’esistenza. L’ex prostituta aveva scoperto che nei reconditi della sua mente erano rimasti brandelli dell’arte che aveva esercitato e che tanto a lungo aveva tentato di dimenticare e si era impegnata al massimo per fare in modo che quell’esperienza diventasse per il suo compagno una ragione abbastanza convincente per non tornare sulla via della continenza. Quando lo aveva portato all’estremo piacere, prolungando il godimento col trucco che gli aveva insegnato un mercante arabo, si era sorpresa nella mente un pensiero da puttana: era un peccato che un maschio così ben dotato si fosse così a lungo votato alla castità ed era scoppiata di nuovo a ridere senza che il prete potesse capire il perché. Poi insieme ad Alfonso, coperta dal mantello, era scivolata nel sonno, dal quale entrambi si erano svegliati quando il sole che nel frattempo era sbucato dalle nuvole era già piuttosto basso. Si erano rivestiti in fretta, quasi senza guardarsi. Si erano dati appuntamento per l’indomani alla stessa ora cercando entrambi di non pensare alla lunga notte che li avrebbe visti separati. Per prima era uscita Adelaide che aveva visto la sua guardia nera in piedi, immobile davanti alla casa diroccata come quando l’aveva lasciata. In pochi secondi era uscito anche il siciliano e i tre si erano avviati verso il porto.
Alfonso era uscito solo quando loro avevano girato la curva del sentiero. Il suo unico desiderio, adesso, era quella che le ore che lo separavano da Adelaide passassero in fretta. Pensò di distrarsi interrogando le guardie per sapere a che ora, la sera prima, avevano rilasciato Consalvo, in che condizioni era e se qualcuno fosse andato a prenderlo. Poi si era ricordato che quel giorno la celebrazione dei Vespri toccava a lui e aveva cominciato a correre. Era arrivato trafelato in cattedrale. La perfida Ronalda intratteneva i fedeli sistemati nelle panche spiegando quanto fosse inopportuno che un sacerdote arrivasse in ritardo. Alfonso non se l’era presa più di tanto e aveva guadagnato con agilità il suo posto sull’altare. Aveva vacillato nel recitare alcune parole del salmo, che sembravano scritte appositamente per ricordargli la sua recente colpa: <Contro di te, contro te solo ho peccato, quello che è male ai tuoi occhi, io l’ho fatto>[1]. Mentre parlava, Alfonso si sentiva addosso il profumo di Adelaide. Era combattuto tra il piacere di crogiolarsi nelle sensazioni che quell’odore gli riportavano alla mente e il timore che i fedeli, pur essendo a debita distanza, potessero sentirlo, tanto gli sembrava intenso. Decise per la prima ipotesi e scrollò le spalle mentre continuava, davanti a tutti, scoprendosi a sorridere come un adolescente innamorato. La continuazione della celebrazione gli portò altre soddisfazioni: la liturgia delle ore prevedeva una lettura breve che sembrava scritta appositamente per censurare la “pia donna”: <Nessuna parola cattiva esca più dalla vostra bocca; ma piuttosto parole buone che possano servire per la necessaria edificazione, giovando a quelli che ascoltano. E non vogliate rattristare lo Spirito Santo di Dio, col quale foste segnati per il giorno della redenzione. Scompaia da voi ogni asprezza, sdegno, ira, clamore e maldicenza con ogni sorta di malignità. Siate invece benevoli gli uni verso gli altri, misericordiosi, perdonandovi a vicenda come Dio ha perdonato a voi in Cristo[2]>. Recitò guardando la bigotta bene in faccia, senza che né lui né lei abbassassero gli occhi, in una sorta di duello di sguardi senza vincitori.
Mentre terminava la celebrazione, si era detto che ancora una volta non era riuscito ad evitare di cadere nell’errore della pagliuzza e della trave e questa volta la trave era saldamente conficcata nel suo occhio. Come aveva previsto Adelaide, stavano arrivando i rimorsi. Bastava, però il profumo che si sentiva addosso a farglieli accantonare in un amen. In fin dei conti, pensava, non stava desiderando la donna d’altri e poi persino Pietro era sposato, per non parlare della questione della Maddalena. Non era forse una prostituta pentita? In ultimo, la storia di Agostino e della concubina cacciata non gli era mai parsa il migliore degli atti del santo.
Si sentiva ubriaco di sensazioni. In poche ore stava analizzando sotto un’altra luce tutto quello che aveva imparato e studiato nel corso di tanti anni. Non gli era mai capitato di pensare se stesso e la propria vita in relazione a un’altra persona. Avrebbe voluto trascorrere la serata oziando e pensando ad Adelaide. Ma il senso del dovere lo aveva richiamato alla necessità di interrogare le guardie. Non aveva, però, ottenuto molte informazioni da loro. Avevano buttato fuori dalla prigione Consalvo quando aveva smesso di dare in escandescenze e avevano ritenuto che potesse reggersi sulle proprie gambe. Lui si era allontanato barcollando. Tutto qui.
Appena Alfonso era tornato nella sua stanza, alla sua porta aveva bussato la balia da latte di Gusberto. Probabilmente lo aspettava nascosta nel chiostro. <Voi sapete – aveva detto l’anziana donna – che, per loro sfortuna, mio figlio e sua moglie sono stati destinati dal Vescovo al servizio del suo figlioccio. Bene, mi hanno raccontato che Gismunda e il marito avevano trascorso separati, cioè in due camere diverse, la prima notte di nozze. Non sono stati assieme da soli nemmeno un minuto. Non è normale che un marito non esiga dalla moglie, la prima notte di nozze, che adempia ai propri doveri coniugali. Che ha in testa quel ragazzo?>. Alfonso aveva ascoltato la donna, ma aveva subito pensato che quel che diceva non era di grande interesse. In fin dei conti ognuno vive il proprio matrimonio come vuole. Sorrise al pensiero che, se avesse avuto una notte intera da passare con Adelaide, non avrebbe certamente relegato la sua donna in un’altra camera. Al solo pensiero di poter giacere con lei, sentì il suo membro irrigidirsi e ne fu fortemente imbarazzato, temendo che la serva se ne potesse accorgere. Disse alla vecchia che se Gusberto non aveva intenzione di consumare, in fin dei conti erano solo problemi suoi. Magari la moglie era indisposta, magari era stanco. <Aspettate, devo aggiungere una cosa – lo aveva incalzato la balia -. La ragazza si è addormentata presto nella stanza che il marito le ha destinato mentre lui, a notte inoltrata, è uscito di casa ed era tornato solo parecchio tempo dopo>.
Il prete sapeva che la donna voleva ancora bene al bambino che aveva cresciuto come fosse il suo, nonostante il giovane, tornato dal seminario, l’avesse maltrattata e persino insultata perché, povera vecchia, non eseguiva abbastanza velocemente i suoi ordini. L’anziana era preoccupata per il ragazzo e non avrebbe mai fatto qualcosa che potesse nuocergli. Riferiva tutto ad Alfonso solo perché lui potesse aiutarlo a trovare la strada per vivere una vita normale e frenare quella deriva folle che aveva imboccato quando era andato a studiare alla scuola monastica. Invece, senza volere, aveva portato al segretario del Vescovo un nuovo indizio della possibile colpevolezza del pupillo di Ramperto: Gusberto era uscito di casa e aveva avuto tutto il tempo necessario per eliminare lo scomodo suocero. Il prete aveva congedato la balia chiedendogli di riferirgli tutto quello che fosse riuscita a sapere, raccomandandole, però, di dire al figlio e alla nuora di non esporsi troppo perché l’ira del padrone avrebbe potuto avere conseguenze terribili: ormai i due erano servitori del ragazzo e né il Vescovo né tantomeno il suo attendente avrebbero potuto intervenire nella gestione delle sue “proprietà”. Quando aveva chiuso la porta, Alfonso aveva pensato di leggere un po’ perché di dormire non ne aveva voglia. Per sua sfortuna, pescando a caso tra i testi che aveva aperti sul tavolo, aveva agguantato proprio il Libro II de “Il discorso sulla Montagna” di Sant’Agostino e aveva cominciato a leggere proprio da questo punto “Avete udito che è stato detto: Non fornicare, ma io vi dico che chi guarderà una donna per unirsi a lei, già ha fornicato con lei nel cuore”. Dunque è virtù minore non fornicare con l’accoppiamento del corpo e quella maggiore del regno di Dio è non fornicare nel cuore. Perciò chi non commette fornicazione nel cuore molto più facilmente evita di commetterla nel corpo. Lo ha ratificato egli che l’ha comandato, perché non è venuto ad abrogare la Legge, ma a confermarla. Si deve evidentemente riflettere che non ha detto: chi si accoppierà con una donna ma: Chi guarderà una donna per unirsi con lei, cioè che la osserverà con l’intento e la coscienza di unirsi con lei; e questo non significa essere solleticato dalla istigazione della sensualità, ma acconsentire pienamente alla passione, sicché non si modera il disonesto impulso, ma se se ne darà l’occasione, viene soddisfatto[3]>. Ecco, proprio come aveva previsto Adelaide stava di nuovo vacillando. Stava veramente scambiando il male per il bene? D’altro canto, ricordava Alfonso, per Sant’Agostino, il peccato e il male morale non sono “il desiderio di volontà cattive, ma sono la rinuncia ad una realtà migliore”. Desiderando Adelaide, rinunciava, dunque, a una realtà migliore, cioè a Dio. Non era sua intenzione e non capiva perché chi si sposava prima dell’ordinazione poteva continuare ad avere una moglie e chi si innamorava dopo non poteva averla. Come poteva chi, come lui o il suo Vescovo, aveva pronunciato il giuramento giovanissimo, giudicare con senno se la propria strada era quella del sacerdozio o quella del matrimonio? Era, dunque, tornato a Sant’Agostino per leggere nel quattordicesimo libro della “Città di Dio” che la prima delle passioni è l’amore, dalla quale si originano tutti gli affetti dell’anima. Dunque, soprattutto l’amore disordinato deve essere considerato come vizio capitale, specialmente perché Agostino, nello stesso libro, dice che l’amore di sè fino al disprezzo di Dio è il fondamento della città di Babilonia. Già, l’amore di sé, come quello che Gusberto dimostrava incrollabile almeno quanto la sua fede. Alfonso si era rimproverato per la seconda volta in poche ore di andare a cercare le pagliuzze nell’occhio altrui, ma poi, forse per lo strano gioco della mente che tenta di distoglierci dai pensieri dolorosi, sfogliando distrattamente le pagine mise gli occhi su un’altra frase, questa volta dell’apostolo Paolo nella Seconda Lettera ai Corinzi: “Noi invece non ci gloriamo oltre misura ma secondo la regola con cui Dio ci ha misurati”. Chi va oltre questa regola incorre nel vizio della superbia. E Sant’Agostino, nel quattordicesimo della Città di Dio, dice che la superbia è “il desiderio d’un’eccellenza perversa”. Ecco il movente per gli omicidi: il desiderio di un’eccellenza perversa, la superbia, la convinzione di essere lo strumento di Dio presentando il conto ai peccatori.
Un po’ per senso del dovere, un po’ per evitare di confrontarsi oltre coi propri sensi di colpa, Alfonso aveva deciso che doveva rimettersi il mantello, uscire dal convento, raggiungere la casa di Gusberto e osservare dove andava e cosa faceva. Così aveva fatto. Aveva dovuto aspettare poco prima che il giovane uscisse. Lo aveva seguito. Non era stato facile non farsi scorgere perché il cielo era diventato sereno e la luce della luna, quasi piena, rischiava tutto in maniera perfetta. Il ragazzo era arrivato alla casa di Ronalda. Il prete aveva dovuto gettarsi in un fosso perché dietro di lui stava arrivando altra gente. Nella dimora erano entrati, nell’ordine, un paio di parroci, il notaio della cattedrale, l’orefice, la moglie e i due figli ormai adulti, tre mercanti e una delle loro mogli, un facoltoso agricoltore e infine la guardia che la sera prima aveva trovato il corpo di Consalvo. Erano tutte persone conosciute per il proprio rigore morale, che fosse vero o millantato come nel caso della “pia donna”. Uno dei preti era arrivato addirittura a criticare pubblicamente l’operato del vescovo Ramperto e quello della Chiesa di Roma. Nel caso dei papi che negli ultimi anni si erano succeduti, Alfonso era piuttosto concorde con l’altro sacerdote. A comandare veramente non era, infatti il giovanissimo Giovanni XI, eletto solo qualche mese prima, ma sua madre Marozia, che l’aveva concepito col papa Sergio III, poco dopo fatto uccidere proprio dalla donna. Tutti sapevano che Marozia aveva pilotato ben tre elezioni consecutive. Prima di quella Giovanni XI, quelle di Leone VI, assassinato ad appena sette mesi dall’investitura, e Stefano VII, morto guarda caso anche lui di morte violenta. Quanto a Giovanni X, predecessore di Leone VI, era stato deposto dalla stessa Marozia e rinchiuso a Castel Sant’Angelo dove, si dice, era morto per strangolamento. Insomma, davanti a tanta dissolutezza, la sua relazione con Adelaide sembrava davvero un peccato di poca rilevanza. Se le contestazioni nei confronti del papato parevano giustificate, certamente quelle nei confronti di Ramperto, capo della diocesi e allo stesso tempo conte, avevano a parer suo ragioni meno nobili e puntavano a strappargli il potere sulla città.
Quando gli era sembrato che non arrivasse più nessuno, Alfonso era uscito dal proprio nascondiglio e si era avvicinato alla casa. Non era riuscito a guardare dentro perché delle pesanti tende coprivano la finestra, ma poteva sentire perfettamente le voci, anche se erano attutite dalla stoffa. <Vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo. La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande> ripetevano all’unisono gli ospiti di Ronalda, dando fiato e anima a un coro sinistro. Stavano recitando l’Apocalisse di Giovanni. Un testo che parlava della fine del mondo che, dicevano alcuni, sarebbe arrivata tra non molto, cioè nell’anno mille. Ad Alfonso quella riunione pareva però avere connotati più politici che religiosi. Aveva la netta impressione che i due sacerdoti stessero cercando di sfruttare le debolezze degli altri e cioè, a seconda dei soggetti, l’oltranzismo religioso, l’ignoranza, la superbia di ognuno dei partecipanti alla strana notte di preghiera. Il giorno seguente ne avrebbe parlato al Vescovo e certo Ramperto sarebbe rimasto stupito più dalla partecipazione di Gusberto che da quella di ognuno degli altri. Nel quadro di quel delirio, certamente potevano avere un loro ruolo anche gli omicidi che potevano essere semplicemente un modo per diffondere la paura, terrorizzare il popolo e convincerlo a seguire chi proponeva la via della salvezza attraverso un’interpretazione rigida, anche se a parere di Alfonso non corretta, delle scritture. Il segretario del Vescovo era quindi tornato sui propri passi, lasciando il gruppo a delirare delle punizioni divine e di Azrael, l’angelo della morte. Di quel nome non c’era traccia nella Bibbia, pensava Alfonso, ma recentemente qualcuno che prediligeva la religione della paura alla religione della salvezza l’aveva “pescato” dalla cultura musulmana e lo aveva riciclato in quella cristiana, anche se in realtà nemmeno il Corano, che lui aveva letto attentamente, lo chiamava così ma, semplicemente, “angelo della morte”. Era quasi certo che quel gruppo di “buoni cristiani” potesse aver messo in atto una “strategia moralizzatrice” che poteva spingersi fino all’omicidio. Era tornato a casa pensando ai guasti che quella gente poteva portare alla vita della città e a ogni suo abitante. Arrivato nella sua stanza, non era riuscito a chiudere occhio e quindi, alla fine della IV vigilia, quando il cielo non aveva ancora cominciato a rischiararsi, si era presentato davanti alla porta della camera del Vescovo. Sapeva che Ramperto andava a letto sempre molto presto e che si svegliava prima dell’alba, tanto che si era offerto di celebrare sempre lui le lodi mattutine a patto che gli altri sacerdoti che facevano riferimento alla cattedrale si dividessero le altre, fatta eccezione per quelle solenni alle quali non si poteva sottrarre. L’alba sarebbe arrivata un po’ prima dell’inizio della seconda ora, il Vescovo era sicuramente già sveglio. Così il prete aveva bussato e aveva trovato il suo superiore seduto al tavolo a leggere. <Alfonso, che succede – aveva chiesto il Vescovo, stupendosi di trovarsi di fronte così presto il suo attendente, visibilmente stanco e sconvolto –. Calmati e siediti qui, accanto a me>. Sapeva che il segretario era una persona seria, che i suoi consigli erano sempre stati preziosi e le sue valutazioni equilibrate. Dopo aver ascoltato tutta la storia che Alfonso gli aveva raccontato, Ramperto si era chiesto se per caso a farlo parlare fosse la gelosia nei confronti di Gusberto col quale doveva dividere la sua stima e il suo affetto. Ci aveva riflettuto in silenzio, mentre l’attendente lo guardava. No, non era così. Quello che il segretario gli aveva riferito era certamente vero. Sulla prima parte della storia, quella che riguardava il fatto che il suo giovane pupillo non avesse giaciuto con la moglie e fosse, invece, uscito a notte fonda per fare ritorno a casa solo il mattino, aveva ascoltato anche la testimonianza di uno dei servi, che aveva messo in casa del giovane proprio perché gli riferisse ciò che accadeva. Il Vescovo aveva intuito sin dal primo momento il progetto di Gusberto, anche se non ne aveva inteso le ragioni, ed aveva capito che il ragazzo voleva una moglie muta perché non potesse dire che era rimasta illibata dopo il matrimonio. Per questo aveva scelto uno dei suoi informatori più fidati come segretario personale di Gusberto. Sapeva come costringere il ragazzo a fare quello che lui desiderava perché, per quanto gli volesse bene, era perfettamente cosciente del fatto che il suo pupillo era incline al peccato di superbia e mirava direttamente al potere. Poteva diventare un buon pastore, ma prima andava forgiato e per spingerlo sulla strada che credeva giusta, Ramperto era pronto al ricatto. Sapeva anche che Alfonso sarebbe stato un migliore candidato alla sua successione, ma aveva solo una decina di anni meno di lui e non gli sarebbe sopravvissuto a lungo. In qualche modo, aveva pensato il Vescovo di se stesso, stava dimostrando di essere anche lui incline a ricercare un’eccellenza perversa: voleva orientare la diocesi genovese ben oltre la propria fine. Ora, invece, la sua supremazia era in pericolo e poteva concludersi a breve termine con spargimento di sangue. Anche il suo sangue. Se davvero si stava formando una setta eretica e rivoluzionaria, doveva tirare immediatamente le briglie. <Allora, Alfonso, cosa possiamo fare per frenare questa deriva che minaccia di diventare molto pericolosa? – aveva chiesto -. Hai sempre dimostrato buone doti di analisi e grandi capacità di pianificazione e conosco fin troppo bene la tua onestà intellettuale. Sono certo che non ti farai trascinare dalle tue emozioni personali, dalle antipatie, dalla gelosia>. L’ultima parola aveva fatto sobbalzare Alfonso: il Vescovo era a conoscenza di questo suo basso istinto, dell’odio che nutriva nei confronti di Gusberto. Resosi conto che Ramperto lo conosceva più di quanto avesse ipotizzato, aveva impiegato qualche secondo a rispondere. <Signore, è bene che mettiamo subito in moto i nostri informatori, per capire la reale portata del problema – aveva detto non appena era riuscito a riprendere il fiato -. Suggerirei anche di trasferire immediatamente il prete più anziano in una diocesi lontana. Voi potreste parlare con Gusberto in modo da assumere informazioni senza che il giovane capisca che già sapete>. Il Vescovo era d’accordo su tutto, meno che sul trasferimento del vecchio prete. <Lo controlleremo meglio se potremo tenerlo sott’occhio e non rischieremo che possa avere ampia libertà di mettere insieme un grosso gruppo di adepti fuori dalle mura della città per poi magari presentarsi alle porte con un esercito – aveva spiegato al suo segretario -. Non sono, però, poi così convinto che il gruppo sia responsabile dei tre omicidi anche se, ammetto, è verosimile che questi possano inserirsi in una più ampia “strategia della paura”, insieme alle minacciose prediche sulle fiamme dell’inferno che svengono raccontate mai state così vicine>. Ramperto aveva quindi congedato l’attendente ed era andato in cattedrale a celebrare le lodi mattutine. Subito dopo era salito sul suo cavallo per raggiungere la casa del suo figlioccio. Il Vescovo era appena partito quando la moglie di un mercante era arrivata gridando al convento. Avevano ucciso il marito proprio davanti a casa. Lo avevano accoltellato e sulla pelle della fronte avevano intagliato una croce.

[1] La Bibbia, Salmo 50
[2] La Bibbia, Nuovo Testamento, Efesini, 4:29-32
[3] Sant’Agostino, “Il discorso del Signore sulla Montagna”

©Monica Di Carlo 2015 – Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’autore.

IV CAPITOLO – “Della fine di un figlio ribelle e delle tentazioni della lussuria”

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IV CAPITOLO
“Della fine di un figlio ribelle e delle tentazioni della lussuria”

Il cadavere appena poggiato sul sagrato della chiesa era quello di Beltramo, uno dei servi di Adelaide. Anche lui aveva la testa spaccata, proprio come Anna e sulla fronte l’assassino aveva tracciato col coltello una profonda croce. La ex prostituta aveva raccolto il ragazzo un paio di anni prima, sporco e affamato, perché il padre lo aveva buttato fuori di casa. Aveva appena 12 anni e la sua colpa era quella di non aver rispettato il volere del padre Ariperto, comandante delle guardie del vescovo, che lo voleva militare. Lui, invece, non aveva alcuna intenzione di addestrarsi ad uccidere. Non voleva andare via dalla sua città. Non amava i sistemi violenti del genitore. L’unica cosa che desiderasse era suonare il suo flauto. E magari, per vivere, fare il pastore di greggi. Gli piaceva così tanto stare con gli animali, ma il padre, ovvio, non approvava. Tra loro erano nate diverse liti che degeneravano puntualmente in risse, con Beltramo a difendersi come poteva dai colpi del padre e questo a menare di randello. Una volta per impedire al genitore di avanzare col bastone gli aveva tirato uno sgabello, colpendolo in fronte. Per questo era stato buttato fuori di casa col suo strumento musicale per non essere mai più riammesso. Beltramo si era adattato a vivere all’addiaccio e a mangiare grazie alla generosità di chi, ascoltando la sua musica, gli allungava un uovo, un pezzo di pane, a volte persino una moneta. Talora la madre mandava qualcuno a portargli un mantello nuovo, un po’ di cibo, qualche soldino. Ma il marito se ne era accorto e l’aveva chiusa in una stanza di cui soltanto lui aveva la chiave. La più anziana delle prostitute che vivevano nella casa di Adelaide, sorella della madre del ragazzo, aveva pregato la tenutaria di accoglierlo come servo. E lei era contenta di averlo fatto perché Beltramo era un ragazzo sveglio e leale e la sua musica era deliziosa. Quel giorno aveva mandato proprio lui al mercato, a vedere se poteva incontrare il servo di Alfonso. Lì Beltramo aveva invece incontrato il padre, di ronda con alcuni dei suoi soldati. Avevano litigato. Come sempre, era stato il militare a provocare il figlio: gli aveva detto che era servo delle prostitute e che disonorava la sua casa. Poi, senza che il giovinetto rispondesse, l’uomo aveva afferrato uno dei bastoni che stavano appoggiati vicino alle ceste di un venditore di mele. Beltramo, approfittando della distrazione del padre, era scappato via correndo in un vicolo e tutti, verdurai e clienti, erano scoppiati a ridere. Perché il comandante delle guardie era ormai vecchio e goffo e si muoveva con lentezza mentre il ragazzo era agile. Se il giovane avesse voluto avrebbe preso anche lui uno dei bastoni e lo avrebbe potuto spaccare sulla schiena al comandante delle guardie prima che questi riuscisse a brandire quello che aveva raccolto. Ma Beltramo aveva preferito scappare per non doversi confrontare col genitore pur sapendo che, ormai, sarebbe stato capace di ridurlo a mal partito. Non se la sentiva di picchiarlo, perché lui era fatto così. Era buono anche con chi non gli voleva bene, ma questo, quella pettegola Ronalda, che era arrivata in cattedrale per i vespri e diceva di essersi trovata al mercato proprio all’ora V, non lo raccontava. Diceva, invece: <Quel piccolo demonio non rispetta il padre e la madre. Ha preferito vivere in mezzo alle meretrici piuttosto che servire i suoi genitori e il Vescovo. In quella casa di donne senza Dio si sarà certamente reso responsabile delle più disgustose turpitudini. Non sto a dirvi qui, proprio sul sagrato della chiesa, di cosa sono capaci le prostitute. Anzi, nemmeno arrivo pensare a cosa possono arrivare per offendere l’Altissimo>. La “pia donna” non la smetteva di sputare sentenze. Rovesciava sui molti che le si erano fatti attorno per sapere, pensando che fosse stata testimone del delitto, fiumi di maledizioni nei confronti di quelle <donne malvagie, mogli di Satana>, ammoniva gli uomini a non “frequentarle” e le donne a badare che i loro uomini non fossero <presi dagli incantesimi> che certamente quelle megere sapevano fare per procurarsi i clienti e far dimenticare loro <la retta via e l’amore di Dio>. Sì. Certamente, affermava, quelle donne avevano iniziato il giovane <alle loro pratiche sessuali che offendono l’Altissimo e forse anche alla magia dei pagani> che, Ronalda ne era certa, ancora viveva proprio grazie alle meretrici e tutti coloro che rifiutavano <la Grandezza di Dio>, <irriconoscenti per la via della salvezza che Lui aveva indicato agli uomini>. Quindi ricominciava ad accennare i particolari delle pratiche erotiche alle quali certamente Beltrando era stato iniziato e parlando si copriva gli occhi con le mani, come se non volesse vedere l’immagine che stava dipingendo con le sue stesse parole. Le espressioni del volto, se possibile, erano ancora più esplicite di quello che stava dicendo. Se il prete non avesse conosciuto così bene il ragazzo, anche lui avrebbe pensato che, infondo, quella fine se l’era cercata e meritata. Alfonso si era trovato a perdere un’altra volta la calma. E se in piazza non fosse arrivato in quel momento il padre del defunto forse l’avrebbe persa del tutto e avrebbe insolentito una buona volta come meritava quella “pia donna”, che sull’altare, ben più in alto di Cristo, metteva la calunnia e la maldicenza. Il prete era fortunato perché proprio nel momento in cui stava per sbottare, Ariperto era arrivato di corsa dopo essere stato avvertito dai suoi soldati di quanto era accaduto. L’attenzione di tutti quelli che si erano radunati sulla piazza si era spostata dalla comare all’uomo che avanzava claudicando mentre la folla si apriva davanti a lui. A rompere il silenzio che si era creato al suo passaggio fu un grido del comandante, disperato e prolungatissimo. L’urlo di una bestia ferita. Alfonso aveva lasciato che il militare si piegasse sul cadavere del figlio. Quindi aveva fatto segno a tutti di entrare in chiesa per i Vespri e, dopo essersi sincerato che fosse entrata anche Ronalda, aveva alzato a forza per le spalle il comandante che si era inginocchiato vicino al corpo del giovane e ne fissava il volto devastato. <Ariperto, vieni dentro con me, dobbiamo parlare> aveva detto Alfonso. Poi, lo aveva accompagnato nel convento, anzi, lo aveva quasi trascinato nel chiostro e, poi, nel suo studio. Il padre di Beltramo si era lasciato condurre all’interno senza dire una parola. Sembrava assente, chiuso nel suo dolore a lottare coi complessi di colpa, lo sguardo nel vuoto. Il prete lo aveva fatto sedere ne, aveva comandato ai servi di portargli un boccale di birra. Ariperto era voltato verso Alfonso, ma sembrava non vederlo. Allora il sacerdote aveva provato a richiamare la sua attenzione alzando il tono della voce: <Lo sai che in piazza si dice che sia stato tu ad uccidere tuo figlio?>. Ma l’uomo ancora non lo aveva ascoltato. Non aveva nemmeno cambiato espressione: era evidentemente in stato di choc. <Coraggio, dammi le chiavi della stanza dove hai rinchiuso tua moglie – aveva continuato Alfonso -. Ha diritto ad abbracciare il corpo di suo figlio prima della sepoltura>. Solo in quel momento il capitano delle guardie si era scosso dal torpore. Aveva portato la mano alla cintura, aveva preso la chiave e l’aveva allungata al sacerdote. Quando Alfonso lo aveva sfiorato per agguantare quello che il militare gli stava porgendo, Ariperto era scoppiato a piangere. Aveva finalmente trovato la forza di dare sfogo alla disperazione per la perdita di quel figlio che tanto aveva osteggiato. <Beltramo mi ha dato tanto dolore – diceva, ora, tra i singhiozzi -. Ma la punizione che gli ho inflitto è stata davvero troppo grande. Voleva fare il musicista in un mondo di guerrieri e mercanti e io non potevo accettarlo. Sarebbe stato un disonore. Tante volte ho pensato di riprenderlo in casa, persino di dirgli che se avesse voluto poteva fare il pastore e io stesso gli avrei comperato le pecore. Ma alla fine il mio orgoglio aveva sempre avuto il sopravvento, persino sul dispiacere di non potermi avvicinare a mia moglie che mi lasciava accostare nemmeno quando le portava il cibo e non mi rivolge la parola. Da qualche tempo non mangiava quasi più, quasi come se si stesse lasciando morire. Che le dirò adesso?>. Alfonso aveva consegnato le chiavi a un servo, perché andasse a prendere la donna e nel frattempo aveva parlato a lungo col capitano delle guardie. Non era stato lui a uccidere il ragazzo.

Da quando Beltramo era scappato dalla piazza di San Giorgio, era rimasto sempre coi suoi soldati che potevano testimoniare la sua innocenza, ancorché lui ritenesse se stesso comunque responsabile della fine del figlio perché aveva capito che averlo abbandonato equivaleva ad averlo messo nelle condizioni di essere assassinato. No, non era stato Ariperto a uccidere il ragazzo a bastonate e, tantomeno, a incidere la croce sulla sua fronte. E allora, chi poteva essere stato? Chi odiava a tal punto il giovane flautista? Era evidente che i due omicidi erano legati e l’unico collegamento che al prete venne in mente era Adelaide. Come padrona di Beltramo, Alfonso poteva interrogarla, incontrarla senza suscitare scandalo, persino andare nella sua casa, accompagnato magari da un paio di guardie. Aveva affidato Ariperto a due servi, perché, come aveva minacciato, non facesse sciocchezze e uscì dal convento con due guardie. Sul sagrato Gusberto e Ronalda stavano parlando alla luce delle fiaccole. La donna stava ripetendo il suo monologo contro Beltramo mentre Gusberto assentiva con un gelido mezzo sorriso che sembrava di compiacimento, la testa leggermente inclinata verso sinistra. In quel momento dalla curva della strada era spuntata Adelaide con due servi che reggevano delle lanterne. Dal mantello scuro spuntavano lombi del vestito rosso che era costretta a portare quando usciva per strada. Quando era arrivata abbastanza vicina a lui, Alfonso aveva visto che aveva gli occhi pieni di lacrime. Gli sembrava bellissima, coi suoi capelli castano scuro “rigati” da quelli bianchi che ormai non erano pochi, i boccoli che le cadevano sulle spalle e la fascia sulla fronte che, oltre a coprire il marchio della vergogna, evitava che i ciuffi le coprissero il volto. La luce delle fiaccole, ora che si era avvicinata ancora di più, faceva danzare le ombre sul volto e sui riccioli. Il prete aveva faticato a reprimere l’istinto di correrle incontro e di abbracciarla. Ogni volta che incontrava Adelaide doveva fare ricorso a tutte le sue forze per ricordare di essere un prete e poi frenare gli istinti e respingere le sensazioni che gli avviluppavano il corpo facendo salire il calore dai piedi fino alla testa e provocandogli erezioni che, nonostante non fosse più giovanissimo, arrivavano ad essere persino dolorose, alle quali seguiva puntualmente un forte male all’addome che proseguiva per alcune ore. Era l’unica donna che avesse mai desiderato fatta eccezione per una giovinetta che, quando era in seminario, passava ogni giorno col suo mulo davanti alla porta del convento. All’epoca non era ancora prete e nel suo letto, nel camerone, si era lasciato andare ad atti impuri, pensando alla ragazzina. Il vecchio monaco che badava ai seminaristi se ne era accorto e lo aveva costretto a dirlo in confessione. Gli aveva dato una punizione esemplare, costringendolo a stare inginocchiato davanti all’altare a pregare per tre giorni e tre notti, senza mangiare e senza mai alzarsi se non tre volte al giorno per andare a fare pipì. Gli aveva detto che disperdere il seme era peccato mortale e che sarebbe finito all’inferno e aveva infarcito i suoi racconto di immagini terribili, di diavoli con la frusta di fuoco e di animali feroci che sbranavano il cuore dei dannati. Alfonso si era spaventato così tanto che non lo aveva fatto mai più. Alcuni suoi compagni avevano deciso di sposarsi prima dell’ordinazione, come era consentito, altri lo fecero scegliendo però, di non proseguire la via del sacerdozio. Lui, che era giovane e per questo pieno di certezze, aveva pensato che non esistesse donna che potesse e avesse il diritto di distrarlo da Dio. Aveva continuato a pensarlo fino a quando aveva conosciuto Adelaide. E non perché era bellissima. Non solo. Era colta, intelligente. Anche se era donna, era una delle poche persone con le quali valesse la pena di passare un pomeriggio a discutere e dalle quali potesse imparare qualcosa. Non era esatto dire che lo distraesse da Dio. Piuttosto lo “accompagnava” nella sua mente con un pensiero che Alfonso badava bene a tenere sempre coesistente e mai alternativo per evitare di cadere nel peccato. Quasi sempre riusciva a controllare l’istinto e a riservare il piacere alla mente. Era come infliggersi una punizione peggiore di quella che aveva scelto per lui il vecchio monaco. Del supplizio della continenza arrivava persino a provare piacere. Era una forma di autolesionismo, se vogliamo, di masochismo. In fin dei conti una perversione, l’unica che la sua morale gli concedesse. Così il prete godeva nell’“ascoltare” la sensazione di fastidio al basso ventre quando, non avendo concluso l’erezione con la polluzione, rimaneva prima dolorante e poi indolenzito per ore. Pensava che era più o meno quello che potevano provare coloro che, come il suo Vescovo, portavano il cilicio. Quando gli accadeva, Alfonso entrava in uno stadio quasi ipnotico, nel quale faticava a respingere nella sua mente i pensieri peccaminosi che si presentavano. Era come lottare contro un drago che gli stava dentro. E se, per caso, gli capitava di addormentarsi, perdeva il controllo e non poteva evitare che nel sogno si sviluppasse ciò che da sveglio bandiva con fatica dalla propria immaginazione. Allora, vedeva il seno grande di Adelaide tra le sue mani, sentiva la sua bocca fremere contro quella della donna, gli pareva di percepire anche il suo profumo di femmina e alla fine, nel momento del più profondo piacere, si svegliava sudato e si rendeva conto che era troppo tardi per evitare che le lenzuola si imbrattassero del suo sperma, proprio come quando era seminarista. Quando incontrava Adelaide, magari dopo parecchi giorni, non poteva fare a meno di essere imbarazzato, quasi come se lei potesse intuire quanto tra di loro era accaduto in sogno. Allo stesso tempo, il loro grado di affinità, quasi di complicità, aumentava, così come cresceva quando discutevano di un passo della Bibbia, dei libri di Sant’Agostino e di quel poco che era rimasto di quanto scritto da Ario o della dottrina di Origene Adamantio. Aveva insegnato ad Adelaide anche il greco e adesso lei poteva leggere da sola come Origene ritenesse che il Figlio fosse un attributo del pensiero del Padre e come Ario, pur non negando la Trinità, subordinasse il Figlio al Padre attribuendo al primo il ruolo di semidio, non identificabile col Dio stesso. I due discutevano per ore e Alfonso era sempre molto attento a non perdere mai di vista la retta via, tracciata dal concilio di Nicea: niente matrimonio dopo l’ordinazione. Quando Adelaide gli chiedeva se era certo di quanto sosteneva, Alfonso, per paradosso, usava una frase di Ario: <Non fatevi uccidere per le mie opinioni. Potrei avere torto. A nessun uomo è dato il privilegio di non sbagliare>. Allora lei scoppiava a ridere, gettando indietro la testa e allungando quel suo meraviglioso collo bianchissimo nel quale il prete avrebbe voluto affondare le labbra, spingendo il naso nei suoi capelli che profumavano di acqua di rosmarino. Ad Alfonso non restava che buttarsi nuovamente nella discussione per evitare di essere travolto dai sensi, per respingere il desiderio di avvicinare il suo volto a quello di Adelaide. Un paio di volte, forse tre, non era riuscito a trattenersi. Le aveva baciato la fronte dove erano già comparse le prime rughe. Una volta aveva persino posato le sue labbra su quelle della donna. Le aveva appena sfiorate e poi le aveva chiesto scusa. Era stato male per diversi giorni e aveva faticato a trovare il coraggio di rivederla. Anzi, non lo avrebbe mai fatto se non fosse stata lei a chiamarlo, scrivendogli un messaggio: <Perciò la volontà retta è un amore buono, la volontà perversa è un amore cattivo. L’amore che aspira a possedere ciò che ama, è desiderio; quando lo possiede e ne gode è letizia; quando fugge ciò che gli ripugna, è timore; quando sente ciò che accade, è tristezza. Questi sentimenti sono dunque cattivi quando l’amore è cattivo, buoni quando l’amore è buono> gli aveva scritto la donna. Nemmeno una riga di più. Alfonso non poteva non capire immediatamente che il suo tentativo di allontanarsi da Adelaide era già miseramente fallito. Perché doveva privarla della possibilità di imparare? In fondo quello che doveva fare non era solo offrire a Dio la rinuncia ai propri istinti, un dono tanto più prezioso tanto più la tentazione sarebbe stata forte. Poi gli era venuta in mente una frase del “De Ordine”: “Melius scitur Deus, nesciendo”[1]. Forse non faceva il bene della donna a insegnarle tutte quelle cose. Voler “essere maestro” era certamente un peccato d’immodestia e voler essere precettore e, per di più, di una donna prostituta era il peggio del peggio. I più l’avrebbero considerato totalmente inutile, oltre che sconveniente per un sacerdote. Molti preti e probabilmente anche il suo vescovo avrebbero storto in naso o addirittura lo avrebbero condannato se avessero saputo che insegnava a una prostituta. Non poteva e non voleva nascondersi dietro a un dito, ammantando il suo operato di nobiltà d’animo: insegnava ad Adelaide soltanto perché amava farlo. In primo luogo, inutile negarselo, gustava minuto dopo minuto il piacere di starle vicino. Poi non vedeva altra opportunità per confrontare le proprie opinioni con quelle di una persona che sapeva di cosa parlava e allo stesso tempo era libera dalla sovrastruttura della rigida scuola del seminario. Anche lui, tornando a studiare insieme ad Adelaide, aveva imparato molte cose rileggendo brani che da ragazzo, quando li aveva imparati a memoria, non aveva capito veramente. Inoltre si era arricchito di un’umanità che nessun maestro avrebbe potuto insegnargli e che il seminario non gli aveva mai offerto. Vedendola, ora, sul piazzale della cattedrale, con le fioche fiammelle delle lampade e delle fiaccole a disegnarle una danza di luce sui capelli e sul volto e a farla ancora più bella, si era chiesto onestamente se per caso tutte le sue elucubrazioni non fossero semplicemente il tentativo di ricercare un alibi e il suo non fosse semplicemente un deprecabile amore materiale. Non era quello, si era subito detto, il momento per scoprirlo. Lo aveva pensato con sollievo convalidando da solo la validità dell’alibi che aveva trovato, perché decisamente non aveva voglia di affrontare la discussione con se stesso, l’unica persona che non poteva ingannare con l’esercizio della dialettica. A vedere sul sagrato Adelaide, Ronalda aveva fatto un balzo all’indietro, inorridita, mentre Gusberto aveva la faccia di chi si scopre nel piatto un cibo che non gradisce. Alfonso con grande prontezza aveva detto ai due: <Molto bene, ciò mi risparmia l’incomodo e l’imbarazzo di raggiungere la casa di meretricio. La padrona di Beltramo è giunta fino a qui giusto al momento di farsi interrogare>. Poi aveva chiesto a Gusberto di accompagnare Ronalda fino a casa, visto che ormai era buio, ottenendo, così, di toglierseli dai piedi entrambi in un sol colpo. L’aspirante prete avrebbe voluto trovare qualcosa da rispondere per svincolarsi e assistere all’interrogatorio, ma la comare si era già avvinghiata al suo braccio e lui non era stato abbastanza svelto nel pensare una scusa valida per smarcarsi. Nel frattempo Alfonso si era avvicinato ad Adelaide e l’aveva invitata con formalità a seguirlo nel convento. Quel tono gelido aveva sorpreso e spaventato la donna che, comunque, aveva detto ai servitori di attenderla in quel punto e con l’attendente del vescovo si era avviata verso il portone.

Quando gli era sembrato di essere abbastanza lontano da Gusberto, Alfonso, che aveva intuito lo stato d’animo di Adelaide, le aveva sussurrato di stare tranquilla. Proprio in quel momento stava arrivando la madre di Beltramo. Non piangeva, non gridava. Il prete aveva pensato che ancora non sapesse. E, invece subito gli si era fatta incontro per chiedergli di vedere il cadavere del figlio. Non aveva detto una parola di più, non aveva chiesto chi l’avesse ucciso. Probabilmente aveva dato per scontato che il colpevole fosse il marito. <Non è stato Ariperto> le aveva detto Alfonso. Ma lei aveva risposto che Beltramo aveva incominciato a morire quando il padre lo aveva buttato fuori di casa e che per nessun motivo avrebbe mai perdonato il marito. Poi si era rivolta ad Adelaide e l’aveva ringraziata per aver accolto il suo povero bambino e per essergli stata madre come e meglio di quanto lei avesse saputo essere. La prostituta le aveva risposto solo <Troveremo l’assassino> ben sapendo che era una bugia, ma la donna aveva risposto che l’assassino, per lei, aveva già un nome e un volto. Aveva poi chiesto al prete di aiutarla a entrare come serva in un convento di suore. <L’unica cosa che non sopporterei – aveva detto – sarebbe quella di dover vivere ancora con chi ha ucciso mio figlio>. Alfonso non aveva saputo trovare parole per contrastare la tesi di una madre disperata, aveva promesso di aiutarla e l’aveva affidata a uno dei monaci del convento perché la conducesse dal corpo di Beltramo e quindi la ricoverassero in una delle celle vuote di San Siro, in attesa di trovare una definitiva collocazione. Aveva fretta di parlare con Adelaide prima che tornasse Gusberto. Aveva guadagnato ad ampie falcate la biblioteca facendo strada alla donna. Lì, dove le lampade rischiaravano un grande tavolo ingombro di libri, l’aveva fatta entrare e aveva chiuso la porta alle sue spalle. Adelaide gli aveva chiesto subito se avesse idea di chi avesse ucciso Beltramo. Alfonso le aveva risposto che sperava di avere da lei qualche elemento e le aveva detto di essere in cerca di indizi che collegassero in qualche modo la morte del ragazzo con quella di Anna. <L’unico collegamento possibile – aveva risposto lei – sono io>. Lui la invitò a non scherzare, ma la meretrice lo aveva invitato a riflettere. Gli aveva raccontato quello che nella notte aveva visto al porto. Alfonso le aveva detto della croce incisa sulla fronte di Beltramo, del tutto simile alla P disegnata col coltello su quella di Anna. <È evidente che per la città gira un folle – aveva aggiunto il prete -. Hai ragione, entrambi gli omicidi sono stati commessi nel tuo ambiente. Nessuno è più sicuro. In particolare tu e le persone che abitano nella tua casa. Sarebbe meglio che tu andassi fuori città per qualche tempo>.
<Per niente al mondo abbandonerei le mie donne e i miei servi al pericolo> aveva risposto la prostituta.
<Allora promettimi che né tu né le sue donne uscirete da sole> aveva concluso Alfonso, pur rendendosi conto che non sarebbe riuscito a convincere Adelaide. Lei aveva risposto che avrebbe assoldato alcune guardie per difendere la sua casa, poi si era congedata dicendo che se avesse saputo qualcosa gliel’avrebbe immediatamente fatta sapere. Ad Alfonso non era rimasto che accompagnarla alla porta. Aveva deciso di farla scortare a casa, oltre che dai suoi servi, anche da due uomini armati. Lei, stranamente, quella volta, non aveva discusso. Il prete aveva pensato che ora avesse davvero paura.

[1] “Dio si conosce meglio nell’ignoranza”, Sant’AgostinoIV Capitolo

 

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III CAPITOLO – Di un padre snaturato e di una “pia donna”

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ORRORE PRIMO CAPITOLO
II CAPITOLO
III CAPITOLO

 

III CAPITOLO

 

(Di un padre snaturato e di una “pia donna”)

 

 

Se avesse avuto voce, Gismunda avrebbe gridato fino a perdere il fiato. Invece si era afflosciata per terra, nel fango, per scoppiare in un pianto silenzioso e disperato. Quando i parenti avevano raggiunto la bottega, prima di scorgere il corpo di Anna e capire, avevano visto la sorella minore gettarsi a terra e rotolarsi nel pantano. Maria, la madre, si era avvicinata a lei di corsa e le si era buttata addosso, per farle scudo dal calcio che il marito stava per assestarle. Ma Consalvo si era già fermato perché prima degli altri aveva visto la rete e aveva riconosciuto il corpo Anna. L’aveva fissata appena un attimo e ci aveva sputato sopra. Soltanto a quel punto si era voltato e, approfittando che la moglie si fosse alzata per capire cosa fosse quel fagotto di abiti e corde bagnate di pioggia e di sangue, aveva dato una pedata a Gismunda e le aveva gridato di alzarsi, che c’era da mettere in ordine la bottega. A quel punto Maria, aveva riconosciuto Anna ed era svenuta. La figlia maggiore e il genero l’avevano soccorsa mentre alcune donne, nel frattempo accorse alle grida dei bambini, avevano preso i piccoli in custodia allontanandoli da quella orribile scena. Alcuni artigiani che avevano lì vicino la propria bottega erano partiti per andare in cattedrale a raccontare tutto al Vescovo anche se, in realtà, non sarebbe stato necessario. Il drappello di uomini diretti a San Siro aveva incontrato nel Canneto Alfonso, scortato da alcuni soldati, che già stava risalendo la via sotto la pioggia che non sembrava destinata a cessare. Era stata Adelaide ad avvertire il prete. Ovviamente non era potuta andare personalmente in cattedrale, così aveva mandato uno dei marinai che, sconvolto, aveva raccontato al monsignore della violenza con la quale la povera ragazza era stata colpita, lo stato in cui l’avevano ripescata e si era anche premurato di dirgli della “P” incisa sulla fronte. Il segretario di Ramperto si chiedeva chi avesse potuto infierire in quel modo su quella povera ragazza. Non il padre, aveva pensato. Quell’orco l’avrebbe semplicemente massacrata a calci e pugni. Probabilmente era stato qualcuno che l’aveva vista entrare nella casa di Adelaide. La lettera “scolpita” sulla pelle non lasciava scampo a dubbi sulla matrice “religiosa” o, quantomeno, moralistica del gesto. Probabilmente Anna era rimasta vittima inconsapevole di qualcuno al quale non piaceva l’attività di “recupero” delle donne avviata dall’ex prostituta. Certamente si trattava di qualcuno che condannava il meretricio e riteneva che non ci potesse essere salvezza per chi ha venduto il proprio corpo: una posizione che avevano diversi sacerdoti, nonostante la chiesa di Roma tollerasse ampiamente l’attività e la giustificava trovando validi gli argomenti negli scritti di Sant’Agostino che la riteneva un male necessario per evitare ben più gravi peccati contro natura e lo sfaldamento delle famiglie nel caso in cui il marito, anziché soddisfare i propri istinti con una donna pubblica, si fosse trovato un’amante. Insomma, la Chiesa era ben lieta di sacrificare l’anima di una donna per salvare quella di molti uomini. Il fatto che la Curia genovese, come quella romana, raccogliesse le decime dall’attività, la diceva lunga sul reale grado di tolleranza. I maligni pensavano che quell’ingiustificabile “ampiezza di vedute” fosse, in realtà, dettata proprio dalla volontà del papato di incamerare i proventi del meretricio.

Alfonso camminava e cercava di organizzare le idee. Pensava anche che potesse trattarsi di un’operazione architettata per colpire il Vescovo attraverso il suo pupillo Gusberto, ormai promesso sposo della sorella di un’adultera che, come voleva testimoniare la “P” ritagliata sulla fronte, era accusata di aver praticato la prostituzione. L’attendente di Ramperto, davanti al povero corpo di Anna, si era stupito della ferocia con la quale l’assassino si era accanito sulla sua vittima. Non poteva pensare che fosse un omicidio su commissione perché il bruto si era accanito sulla vittima con vero odio. Non si trattava dell’opera di un sicario. Le sole coltellate o le sole bastonate sarebbero bastate e avanzate. E invece il killer aveva infierito e aveva anche buttato il cadavere in mare per essere certo che l’acqua gelata concludesse quello che lui aveva iniziato, se mai ce ne fosse stato bisogno. Alfonso aveva fatto raccogliere la rete in cui Anna era stata trasportata lì e l’aveva fatta portare col suo fardello di morte al monastero della cattedrale. Dopo aver dato l’ordine a due guardie di incamminarsi verso San Siro per scortare i pescatori che avrebbero portato il corpo della ragazza, era entrato nella bottega con gli altri tre. Il mercante di pece stava strattonando Gismunda, infastidito dal fatto che questa continuasse a disperarsi. Era già stabilito che per il fidanzamento non ci sarebbe stata alcuna festa. Gusberto non ne aveva nemmeno parlato. Consalvo aveva detto alla moglie, la quale si lamentava per la pessima figura che avrebbero fatto coi vicini, di non avere intenzione di spendere una sola moneta. Ora stava gridando alla figlia che né il fidanzamento né la morte della sorella l’avrebbe salvata dalle botte se non si fosse messa immediatamente a lavorare. Consalvo aveva già alzato un bastone sulla ragazza muta che si era portata le mani al volto per tentare di difendersi e Alfonso aveva fatto appena in tempo a ordinargli di smetterla prima che l’uomo lo abbattesse con violenza sulla testa di Gismunda e rimanesse con la sua clava a mezz’aria. Poi, il mercante aveva mollato a terra il legno per precipitarsi ai piedi del prelato e inchinarsi. <Mi hanno detto che tu troppo spesso batti donne della tua famiglia> aveva tagliato corto Alfonso. <Tutte le figlie che quella disgraziata di mia moglie è riuscita a darmi sono come lei – aveva detto indicando il cadavere – stupide e disobbedienti, mio Signore. Sono tutte come quella sciagurata che è scappata durante la notte per non andare in convento ed è tornata morta stecchita: ha ricevuto la giusta punizione per aver osato disprezzare il dono che la bontà del Vescovo aveva voluto concederle nonostante non lo meritasse. Spero che quanto è successo non muti i nostri accordi economici>. Il mercante si era inginocchiato ai piedi del prete, quindi si era alzato, ma continuava a parlare chinato in segno di sottomissione. Se Alfonso non l’avesse conosciuto prima avrebbe pensato che fosse nato gobbo perché stava piegato come se ci fosse una forza superiore a tenercelo. Di quando in quando, girava la testa in su per guardare il volto del proprio interlocutore e capire se le sue parole ottenevano l’effetto sperato. Pronunciava ogni frase con una voce melliflua e lamentosa e aveva completamente abbandonato il tono di pochi istanti prima, quando stava minacciando Gismunda. Il figlio Martino, nel frattempo, aveva approfittato della distrazione del padre per prendere per mano la sorella, annichilita dal dolore e dalla paura e l’aveva convinta a salire con lui le scale che portavano al piano superiore. La madre e l’altra sorella erano già salite a casa in punta di piedi. <Mi fai un grande onore. Sono felice che tu sia entrato nella mia povera bottega, uomo giusto, mio pastore, onorabile segretario del Vescovo – aveva proseguito Consalvo -. Già che sei qui, approfitto dell’occasione per chiederti quando riprenderanno gli ordini di pece per la Curia>. Alfonso avrebbe voluto dire ai soldati di pestare quell’essere indegno di essere chiamato uomo. Aveva venduto il futuro della figlia più giovane per una commessa per la bottega e non gli importava che l’altra figlia fosse stata massacrata soltanto poche ore prima. Si preoccupava dei suoi affari e di nient’altro. Il prete aveva fatto molta fatica a recuperare la necessaria calma. Aveva respirato profondamente e solo dopo qualche secondo aveva cominciato a parlare. Con il tono rauco di chi non ha abbastanza fiato, nel tentativo di dominare la rabbia, aveva detto al mercante che non era lì per parlare affari, ma per interrogare lui e la sua famiglia in merito all’omicidio di Anna. <Il mio ruolo è quello di assicurare gli assassini di tua figlia alla giustizia> aveva tagliato corto il prete. <A chi vuoi che importi di una scellerata che fugge all’onore di entrare in convento – aveva risposto il mercante -? Non a me, non alla sua famiglia, sulla quale ha gettato il disonore. Importa, forse, alla Chiesa? Certamente avrà incontrato qualche malintenzionato, perché una donna per bene non bazzica il porto di notte e chi lo fa merita di patirne le conseguenze. È al porto che è stata trovata, non è vero? Così hanno detto i marinai. Nessuno di noi la piangerà, nessuno di noi ne reclamerà il cadavere per la sepoltura. Fatene ciò che volete. Noi non la vogliamo perché – e qui simulò l’espressione di chi è sinceramente dispiaciuto – in vita ha arrecato più un torto a Dio, alla Chiesa e anche a noi>. Alfonso aveva definitivamente perso le staffe. Aveva comunque capito che non avrebbe estorto molte notizie vere da quell’uomo e aveva detto, quindi, al mercante di andare pure a fare le sue consegne, ma aveva aggiunto che avrebbe dovuto farlo da solo perché intendeva parlare col resto della famiglia e che tutti gli altri, quindi, sarebbero rimasti a casa quella mattina>. Consalvo si era spostato in fretta verso le scale e aveva cominciato a salirle due a due, dicendo che avrebbe chiamato tutti perché scendessero in bottega. In realtà aveva intenzione di minacciare i familiari perché non parlassero delle botte e della questione dell’aborto. Ma Alfonso lo aveva capito e gli aveva gridato di scendere e andarsene, prima che lo facesse arrestare. <Salirò io in casa tua – aveva detto -. Sappi che penso possa essere proprio tu il responsabile e non ti lascerò parlare coi tuoi familiari prima di me. Vai a fare le tue consegne. Due delle guardie ti scorteranno perché tu non ti faccia venire in testa l’idea di scappare>. Lo aveva detto solo per spaventare un po’ quell’uomo violento, gretto e arido. Non pensava veramente che avesse ucciso la figlia. Non perché non ne fosse capace. Forse l’avrebbe fatto se l’avesse scoperta mentre lasciava la casa, ma certamente, in quel caso, avrebbe agito subito e non l’avrebbe seguita fino al porto. In fondo, che differenza avrebbe fatto se, invece che farsi suora, fosse scappata senza più fare ritorno? Sarebbe andato qualche tempo dopo a denunciarne la scomparsa e poi la morte presunta. Così Anna sarebbe stata cancellata anche dall’asse ereditario. No, certamente non era stato il padre a ridurre in quel modo la ragazza, ma Alfonso voleva farlo morire di paura, almeno per un po’. Aveva dato ordine alle guardie di trascinarlo fuori dalla bottega e mentre una lo tirava per i vestiti e l’altra lo spingeva con la punta della spada il sacerdote aveva salito le scale. Aveva sentito i gradini scricchiolare sotto il suo peso. Quando era sbucato al piano superiore, aveva trovato una sola stanza dove erano sistemati il fuoco, che aveva annerito tutta la camera, un tavolo e diversi giacigli gettati per terra. Su uno di questi era stesa Gismunda, che piangeva, come sempre, in silenzio. Maria e la figlia maggiore erano sedute su sgabelli, una di fronte all’altra. La ragazza più grande stava pregando la madre di scappare, di andare a vivere con lei, il marito e i figli. Diceva che quando Gismunda si fosse sposata più nulla l’avrebbe tenuta in quella casa, che niente la legava a quel posto dove aveva vissuto il dolore della morte di quattro figlie. Niente la legava più al marito, padre degenere, pessimo compagno, padrone crudele. Anche Martino era della stessa opinione. A lui non sarebbe accaduto nulla di male. Il padre aveva desiderato a lungo “l’erede maschio”, nato settimo dopo sei femmine. Consalvo non gli aveva mai fatto niente di male, mai lo aveva battuto, lo trattava sempre con affetto tanto che quando parlava con lui sembrava quasi un’altra persona. Spesso Martino, per ordine del padre, riceveva più cibo delle sorelle, ma il giovinetto lo passava sotto il tavolo alle più affamate. Era un bravo ragazzo e di Consalvo, per sua fortuna, non aveva ereditato né il fisico né il carattere. Quando Alfonso era spuntato dalla scala, nella stanza era calato il silenzio. Nessuno si era accorto di lui fino a quando non aveva salito l’ultimo gradino. Così, non visto, aveva potuto ascoltare, osservare mentre emergeva nella stanza dal magazzino. Poi, d’improvviso, era come se il tempo si fosse fermato. L’intera famiglia si era girata verso di lui e le donne stavano fissando negli occhi mentre il ragazzo si era alzato in piedi come per difendere la madre e le sorelle per poi fare un passo indietro ed inchinarsi quando aveva capito che chi era entrato era il prete e non il padre. Lo sguardo di Maria sembrava chiedere <perché?>. Gismunda, la sorella maggiore e Martino erano spaventati. Alfonso aveva immediatamente cercato di rassicurarli. <Non dovete aver paura di me – aveva detto -. Volete, non è vero, che io trovi l’assassino di Anna? Allora dovete aiutarmi>. Il prete aveva trovato una sedia con una gamba più corta e si era accomodato stando ben attento a non cadere. <Chi può aver odiato Anna a tal punto da massacrarla?> chiese. <Solo nostro padre> aveva detto la sorella maggiore con rabbia, ma la madre aveva subito assicurato che il marito non si era alzato dal giaciglio per tutta la notte. <Anna mi aveva detto che sarebbe scappata – aveva spiegato Maria -. Per questo io, dopo aver cercato senza successo di dissuaderla, non ho chiuso occhio. Ero spaventata, ma non me la sentita di fermarla o, peggio, di denunciare le sue intenzioni a mio marito. Così, nell’oscurità, l’ho intravista alzarsi. Poi la sua ombra è scomparsa, inghiottita dalle scale, mentre Consalvo russava forte>. Alfonso non era riuscito a trovare in quello che aveva sentito una sola parola che gli potesse servire a capire chi potesse aver ucciso la ragazza in un modo così violento. Una modalità, si ripeteva, che presuppone rabbia, odio, risentimento. Il segretario del Vescovo aveva pensato che era inutile continuare l’interrogatorio e aveva offerto alla madre e al fratello della povera Anna l’opportunità di fuggire subito dopo il matrimonio di Gismunda. La sorella maggiore li aveva pregati di accettare e dopo molte insistenze così era stato. Ad Alfonso non era rimasto che tornare al convento. Doveva inviare un messaggio ad Adelaide. Lei poteva forse fornigli qualche particolare in più sui momenti successivi all’aggressore. Arrivato davanti alla cattedrale, sulla piazza, trovò Gusberto che parlava a bassa voce con Ronalda, una “pia donna”, di quelle che stavano più in chiesa di quanto rimanessero nella propria casa. In realtà, una donnicciola sempre pronta a dire male degli altri, agilissima nel prostrarsi davanti al Vescovo, nell’eterno tentativo di strappargli qualche concessione per i propri affari. Gestiva con la sorella un pezzo di terra che i suoi genitori, ancora vivi, ma ormai molto anziani, avevano ricevuto appena giunti in città dall’allora vescovo che, come la coppia, proveniva da Vintimilia. Al servizio della famiglia c’erano diversi servi ai quali venivano distribuite più nerbate che cibo. Perché Ronalda s’era comprata chi faceva tutto al suo posto e non si sporcava le mani. Se le imbrattava di terra, così come gli abiti, quando doveva comparire in cattedrale per i vespri, ai quali arrivava trafelata come se avesse appena finito di zappare la terra, con l’anticipo sufficiente per fare qualche pettegolezzo sul sagrato. È vero, i suoi vestiti erano poveri e lisi, ma solo perché era troppo tirchia per comprarne di nuovi e non per vera indigenza. Piangendo e lamentandosi dei propri acciacchi e dell’eternamente precario stato di salute dei suoi vecchi, otteneva da tutti favori e concessioni elargiti più spesso per farla smettere di snocciolare lamentele che perché li meritasse. In chiesa rispondeva a tono alto alle invocazioni del sacerdote, dimostrando di sapere perfettamente a memoria i vespri, le lodi e qualsiasi altra celebrazione cristiana e ovviamente, finita la funzione, appena tutti erano usciti sul sagrato, criticava aspramente chi aveva sbagliato un salmo, non aveva scandito bene le parole oppure si era addirittura addormentato in chiesa dopo una giornata di duro lavoro nei campi. Diceva di non essersi sposata perché era devota a Cristo. E a chi le chiedeva perché avesse fatto questa scelta e non avesse preso, invece, i voti, rispondeva che era solo perché la sua famiglia non poteva fare a meno di lei. Aggiungeva che era stato un pesante sacrificio non entrare in convento come desiderava e che offriva al Signore questa privazione come dono perché Lui comprendesse appieno il suo amore e la sua devozione. In realtà Alfonso era venuto a sapere che un fidanzato Ronalda l’aveva avuto. Pover’uomo. Era il figlio di un mercante al quale i genitori di Ronalda avevano prestato del denaro a usura, nonostante la religione cristiana lo vietasse. Le navi con la merce che il commerciante aveva comperato con i soldi chiesti in prestito erano colate a picco durante una tempesta. Così il mercante, così come la moglie e il figlio, era diventato servo della famiglia con la quale aveva contratto il debito che non era in grado di pagare. Il giovane era un bel ragazzo e Ronalda gli aveva subito messo gli occhi addosso. Lui per un po’ aveva abbozzato perché la madre era malata e aveva bisogno di cure che né lui né il padre potevano pagare. Era stato costretto a chiedere a lei di saldare i conti del farmacista. Ronalda lo ricattava continuamente, lo minacciava di non dargli nemmeno un piatto di minestra se non avesse lavorato dal mattino alla sera nei campi, lo insultava davanti a tutti e lo sottoponeva a vessazioni di ogni tipo rinfacciandogli tutto quello che faceva per lui. Quando la megera gli aveva chiesto di stabilire la data delle nozze, lui non se l’era sentita di condannarsi a una vita di tormenti coniugali e aveva pensato che sarebbero stati più che sufficienti quelli che Ronalda che riusciva ad infliggergli come sua padrona. Lei, allora, per rappresaglia, aveva smesso di pagare le medicine. La madre del giovane senza le cure di cui necessitava non era durata che poche settimane. Il padre era morto di crepacuore subito dopo e il ragazzo si era ucciso col veleno non appena aveva sepolto entrambi. Ronalda non aveva mai più trovato un marito perché era brutta e sciatta, collerica e prepotente. Non aveva alcuna intenzione di andare in convento per obbedire a una badessa e sottostare alle rigide regole e agli orari di preghiera. Si era, allora, inventata il ruolo della “pia donna”, devota e casta, tanto affezionata alla famiglia da non essere in grado di lasciarla. E di questa cosa si vantava come se la castità subìta e non scelta fosse una virtù. Solitamente caracollava col suo passo sgraziato, buttando i piedi in fuori, con la pancia sporta in avanti e la fronte alta di chi non conosce la modestia. Poi, arrivata vicino alla cattedrale, si curvava, rallentava l’andatura, iniziava ad ansimare come se per raggiungere la chiesa avesse dovuto scalare chissà quale montagna. Si confessava ogni giorno. Era una scusa per riferire ai sacerdoti non i propri peccati, ma quelli altrui: dicerie, voci, maldicenze di ogni genere, qualche volta fatti reali un po’ esagerati e infarciti di malignità, più spesso veri e propri parti della sua fantasia cupa e maligna. Sulle prime Alfonso le aveva creduto. Poi aveva cominciato a dubitare. Un giorno Ronalda aveva denunciato il vicino di casa, rimasto orfano molto giovane e costretto a badare alla fattoria dei genitori senza esserne in grado. Diceva che era un sodomita e che nella sua casa si svolgevano ogni sera chissà quali festini demoniaci. Il caso aveva voluto che quella volta a “confessarla” fosse stato proprio Alfonso. E lui, prima di prendere provvedimenti, aveva voluto vederci chiaro. Aveva scoperto, così, che il ragazzo, poco più che un bambino, stava tentando tra mille difficoltà di tirare avanti con l’aiuto del fattore del padre, un uomo ormai anziano che l’accudiva come un figlio. Il loro unico rapporto era di affetto reciproco. Il prete, parlando con l’anziano contadino, aveva saputo anche delle angherie della vicina, dei suoi dispetti continui. Una sera, nascondendosi nella casa del giovane, l’aveva vista lui stesso entrare nei campi di proprietà del ragazzo e con la zappa devastare il raccolto nell’orto e gli alberi da frutta. Ne aveva parlato al Vescovo e, sebbene non fosse riuscito ad ottenere che a Ronalda fosse inflitta alcuna punizione, giacché era ancora protetta da parenti influenti e dal nuovo vescovo di Vintimilia, aveva potuto proporre al ragazzo, in cambio della sua terra, un appezzamento migliore lontano dall’arpia. Non appena il ragazzo, i suoi contadini e i suoi servi avevano lasciato la vecchia casa, caricando le proprie cose su carri trainati da buoi che tutto il vicinato salvo la “pia donna” gli aveva imprestato, Ronalda si era precipitata in cattedrale. Quando era arrivata aveva le guance più rubizze del solito. La zazzera di capelli unti, tagliati alla foggia maschile, grigio-giallognoli per via degli impacchi di camomilla coi quali tentava di ringiovanirsi, era tutta scarmigliata. Quella volta ansimava sul serio la “pia donna” perché aveva corso davvero per arrivare in fretta alla cattedrale. Cosa voleva? Era ovvio!, disse. Ringraziava il Signore per aver allontanato i peccatori dalla sua dimora e chiedeva l’assegnazione della terra ormai abbandonata. Alfonso aveva già previsto tutto. Aveva pensato sin dal primo momento che le cattiverie che Ronalda aveva fatto al vicino fossero un sistema per impadronirsi dei suoi spazi. Per questo aveva consigliato al Vescovo di assegnare la casa, la vigna e i campi ormai liberi a un facoltoso proprietario che confinava anche lui col giovane vicino di Ronalda e il ricco agricoltore aveva promesso, in cambio, di contribuire in modo sostanzioso alla costruzione della nuova cattedrale. Al suo servizio c’erano molti contadini e diverse decine di servi. Lui avrebbe saputo come rispondere alle angherie della megera. Anzi, era stato proprio Alfonso a consigliargli di presidiare il confine e di difenderlo anche la notte con uomini armati di bastoni. Così, quando Ronalda era giunta alla messa domenicale con un occhio nero e le labbra gonfie, camminando davvero a fatica, non aveva potuto trattenere un sorriso. Se ne era poi pentito e l’aveva detto in confessione al vescovo, ma Ramperto non gli aveva inflitto alcuna punizione per espiare quella colpa. La donna, aveva detto il Vescovo, aveva ottenuto ciò che meritava e che si era cercata. Alfonso non fu sollevato tanto dall’assoluzione ricevuta, quanto per la certezza che il suo superiore avesse ben inquadrato quella donnetta piccola d’animo. Vederla ora parlottare con Gusberto, certamente un po’ più colto, ma fatto della stessa pasta della donna, lo spaventava. Chissà cosa sarebbe uscito da quel confrontarsi di cervelli malati, superstiziosi e cattivi per natura. Lo aveva scoperto immediatamente perché appena Ronalda si era accomiatata banciando la mano di Gusberto come se fosse stata quella di un vescovo (e anche la sua, imbrattandola di schifosa saliva), il giovane aspirante prete gli aveva detto che era inconcepibile seppellire il cadavere di Anna in terra consacrata. Alfonso stava ancora pulendosi il dorso della mano dalla bava della “pia donna” strofinandola sul mantello fradicio, quando il ragazzo aveva aggiunto che una sepoltura in terra consacrata sarebbe stata di cattivo esempio e che il popolo avrebbe detto che il grave peccato di Anna era stato perdonato solo perché era la sorella della sua futura moglie. Il prete si era distratto un attimo a pensare che avrebbe voluto pulire l’intera comunità della cattedrale dal fango gettato da Ronalda come ripuliva la sua mano dalla saliva e che avrebbe voluto dire quello che pensava di lei dall’altare, magari durante la messa, esortando gli altro fedeli a emarginarla. Purtroppo, come gli aveva spiegato Ramperto quando gli aveva chiesto di processarla per le angherie al vicino, non era possibile denunciare pubblicamente le cattive azioni di Ronalda. Almeno per il momento, almeno fino a quando la “pia donna” manteneva parentele e amicizie in alto loco. Era, dunque, meglio usare il tempo e le proprie risorse per fare qualcosa di più utile e concreto. Doveva affrontare il Vescovo prima che gli parlasse Gusberto. Perché Ramperto era un uomo ragionevole e un buon pastore. Quel ragazzino, tuttavia, spesso, riusciva a convincerlo a fare o dire cose che non appartenevano alla sua natura. Alfonso era entrato a passo spedito nel convento. Avrebbe voluto scrivere un biglietto ad Adelaide e affidarlo al suo servitore più fidato perché senza farsi scorgere lo consegnasse al mercato a uno dei servi della donna, ma, al momento, parlare col vescovo era più urgente. Era entrato nella stanza del suo superiore dopo aver bussato e aver ricevuto il permesso. Aveva raccontato la storia di Anna, il tentativo di salvarla grazie ad Adelaide. Il Vescovo sapeva del casto, seppur insolito, rapporto tra il suo segretario e la meretrice, anche se non ne conosceva i particolari. Aveva raccontato le condizioni in cui il corpo della giovane era stato trovato. Infine Alfonso gli aveva esposto il problema e, come di consueto faceva, aveva proposto la soluzione: la sepoltura “anonima” quella stessa notte, nel cimitero vicino alla cattedrale e l’inumazione ufficiale di un fagotto in terra sconsacrata. Aveva concluso, stupendosene egli stesso, non con una frase della Bibbia o dei Vangeli, ma citando Socrate: <Nulla può far danno a un uomo buono, né in vita né dopo la morte”, ma questa sepoltura serve, più che alla ragazza, a sua madre e alle sue sorelle che restano qui ad affrontare la vita>, aveva detto. Ramperto aveva commentato che, come sempre, l’idea proposta dal suo attendente era saggia ed equa e aveva dato il suo assenso alla doppia sepoltura proprio un secondo prima che Gusberto facesse irruzione nella stanza, anche quella volta senza bussare. Nonostante la scortesia del ragazzo, il Vescovo lo aveva comunque ben accolto, gli aveva detto di conoscere già la ragione della sua ansia grazie alla relazione di Alfonso e che era già stato stabilito che Anna sarebbe stata sepolta l’indomani in terra sconsacrata. Gusberto sembrava dispiaciuto. Probabilmente sperava di ingaggiare una rissa verbale col prete. E invece era stata costretto a riconoscerne la scaltrezza: lo aveva preceduto prendendosi il merito per il consiglio che gli avevano fatto credere che avesse dato. Era uscito ancora più cupo di quanto fosse entrato. Quando era andato via, il vescovo aveva confessato al suo attendente che non sapeva cosa avesse sbagliato con quel ragazzo e che iniziava ad avere l’impressione di aver creato un mostro. Ad Alfonso non era restato che rincuorarlo suggerendo che con l’età Gusberto avrebbe certamente messo a frutto i buoni insegnamenti che aveva ricevuto. Non lo pensava, ma lo aveva detto comunque a Ramperto perché gli faceva tenerezza, proprio come Carlo. Quel ragazzino devastava psicologicamente chiunque gli stesse vicino e gli volesse bene. Era davvero incredibile che il saggio vescovo fosse costretto fare qualcosa all’insaputa del suo pupillo. Alfonso ci aveva riflettuto sopra un attimo: quella sudditanza psicologica di Ramperto era preoccupante. Se ne era, poi, andato scuotendo la testa. Doveva scrivere il biglietto con cui intendeva dare appuntamento ad Adelaide. Lo aveva compilato velocemente e lo aveva affidato al suo servo più discreto che si era precipitato al mercato di San Giorgio dove si trovava certamente uno dei servitori della donna. L’uomo di Alfonso, però, era arrivato troppo tardi, quando la maggior parte dei venditori aveva già lasciato la piazza e di clienti non ce n’erano più. Quell’attesa forzata snervava il prete. Dopo aver preparato la sepoltura clandestina e il fagotto per la falsa inumazione dell’indomani, si era lavato accuratamente: una pratica che gli serviva non solo per cancellare il sangue e l’odore della morte, ma soprattutto per ripulirsi i pensieri, cancellare le sovrastrutture mentali, dissolvere le nebbie che gli oscuravano la ragione. La sua mente si muoveva faticosamente nella foschia e non percepiva nemmeno un bagliore che potesse condurlo all’assassino della ragazza. Aveva tentato, quindi, di rilassarsi seduto alla scrivania. Aveva provato a leggere, ma non riusciva a concentrarsi. A ogni frase terminata doveva ricominciarla da capo. Allora aveva pensato che uscire un po’ gli avrebbe fatto bene. Aveva poco tempo prima che cominciassero i vespri e doveva ancora avvertire la madre di Anna della falsa sepoltura. Aveva raggiunto la casa sul colle con ampie falcate. Per fortuna aveva smesso di piovere e affrettando il passo aveva impiegato pochi minuti a raggiungere l’abitazione. Aveva rassicurato la donna che sua figlia sarebbe stata inumata in terra consacrata ed era tornato a San Siro dove doveva officiare i vespri. E lì aveva appreso di un altro brutale omicidio. Di nuovo il senso di orrore si era impadronito di lui, gli aveva tolto il respiro e si era trasformato, poi, in terrore. Chissà dove voleva arrivare l’assassino. Chissà quanta gente avrebbe ammazzato prima di riuscire a fermarlo!

 

©Monica Di Carlo. Tutti i diritti riservati. Vietati la riproduzione anche parziale del testo e qualsiasi uso non autorizzato dall’autore

II CAPITOLO “In cui si narra della tormentata vita di una meretrice”

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Qui il pdf del  II CAPITOLO

Anna non intendeva entrare in convento. Quella della preghiera non era la sua strada, non dopo che il dio della Cattedrale aveva permesso che le strappassero il figlio dal grembo, non dopo aver visto la morte in faccia nei deliri della febbre, non dopo che il suo Seamus se n’era andato, minacciato da suo padre, con la promessa di tornare col denaro sufficiente a mantenere lei e i figli che sarebbero venuti e di sposarla senza che portasse con sé alcuna dote. Era passato ormai tanto tempo da quando era partito e a volte lo sconforto diventava un macigno. La donna, di quando in quando, cedeva alla disperazione, si lasciava andare al pensiero che Seamus non sarebbe tornato, che forse era morto o che, magari, avesse sposato un’altra donna dimenticando ogni impegno preso. Qualsiasi cosa fosse successa al suo uomo, non sarebbe comunque mai entrata in convento. Doveva scappare oppure minacciare suo padre di dire a tutti che era rimasta incinta fuori dal matrimonio e che lui l’aveva fatta abortire. Ci aveva ragionato: non c’era alcun dubbio che Consalvo l’avrebbe ammazzata picchiandola col bastone così come già tante volte aveva picchiato lei, la sorella, la madre. Solo il fratello si salvava dalle botte. Una delle sue sorelle non era sopravvissuta alle percosse del padre. Il mercante aveva detto a tutti che la piccola Bruna era caduta dalle scale, invece era stato proprio lui a sbatterle la testa contro il muro in preda a una furia cieca, fino a spaccarle il cranio. La poveretta aveva solo cinque anni ed era colpevole di aver impiegato troppo tempo a portare la zuppa al padre scendendo dalle scale di legno che univano la casa alla bottega. No, l’unica soluzione era fuggire e non c’era tempo da perdere. Come fare, però? Aveva provato a chiedere aiuto alla zia, ma anche lei aveva paura del fratello. Le soluzioni che aveva ipotizzato erano due. La prima era quella di imbarcarsi su una nave come mozzo. Era forte ed era disposta a fare i lavori più umili. Era scesa al porto e aveva chiesto a tutti un imbarco, ma le avevano di no perché una donna a bordo porta sfortuna. Aveva preso allora la decisione più dura, quella che non avrebbe mai voluto prendere ma che reputava comunque meglio del convento. Sapeva che in una casa lì vicino c’erano delle prostitute. Lo sapeva perché la madre le aveva detto di non andare mai in quella strada e di non avvicinarsi a quella casa. Invece lei si era diretta sicura verso il postribolo e aveva bussato. Ad aprire uno spiraglio della porta era stata una giovane donna molto bella che sembrava avere appena qualche anno più di lei. Allora Anna si era cercata dentro tutto il coraggio che poteva racimolare e aveva detto tutto d’un fiato che era lì perche voleva fare la prostituta, ma che non poteva farlo a Genova e che doveva scappare e subito. La donna le aveva aperto la porta. Era vestita di un abito rosso molto lungo di buona stoffa pesante, drappeggiato sul seno. <Entra, che non è una decisione da prendere alla leggera. Bisogna che ne parliamo> le aveva risposto. Varcando la soglia, Anna aveva spalancato gli occhi perché era nella casa più bella che avesse mai visto. Il pavimento era di mosaico, le pareti erano tutte intonacate e sopra c’erano disegnati corpi di uomini e di donne impegnati negli amplessi più diversi, ma non c’era niente di volgare perché quei disegni erano un’opera d’arte. Adelaide, la prostituta, aveva preso per mano la ragazza e l’aveva condotta in una stanza dove ardeva il fuoco. L’aveva fatta sedere su una panca coperta di morbidi cuscini colorati e, dopo averle versato un bicchiere di birra, si era accomodata su una grande sedia imbottita rivestita di stoffa rossa. <Perché vuoi fare la prostituta, ragazza? Non è un bel mestiere> aveva cominciato Adelaide tentando di guardare l’ospite negli occhi, ma si era accorta presto che Anna non la stava ascoltando. La giovane si stava guardando attorno incantata. Godeva del caldo del camino e fissava il crepitare il fuoco il cui tepore le aveva fatto dimenticare in fretta l’umidità di quella giornata grigia che le era entrata nelle ossa. Guardava i mobili, le tappezzerie di stoffa che coprivano delle pareti, le tende, i bicchieri, le brocche, passando lo sguardo su ogni cosa, una ad una, e soffermandosi su quello che le sembrava più bello. Aveva ammirato gli orecchini della prostituta, lunghi e pesanti pendenti dove erano incastonate pietre preziose di diverse forme e colori e ai quali era agganciata una pietra più grande che sembrava una goccia di sangue. Infine aveva spostato lo sguardo sulla spilla tutta di oro sbalzato che aveva al centro un cavaliere con elmo e armatura e sul pendaglio che calava in mezzo agli occhi della donna dalla fascia della stessa stoffa rossa del vestito che le copriva la fronte. <Tu guardi tutto quello che c’è qui dentro, ragazza, ma non sai il prezzo che ho pagato per averlo>. Bastò per scuotere la ragazza. Adelaide si era tolta la fascia e sulla sua fronte, adesso, era ben visibile una lettera marchiata a fuoco. <Sai leggere, ragazza?>. Anna aveva scosso vigorosamente la testa per spigare che non ne era capace. <Questa è una lettera “P”. L’iniziale della parola “prostituta” – aveva ripreso Adelaide -. Mi hanno marchiato a fuoco come una bestia. È successo anni fa a Pavia per ordine del vescovo di quella città, perché certi suoi preti erano miei clienti. Lo sapevano tutti, ma a un certo punto un mercante col quale uno di questi santi uomini aveva avuto una lite per questioni di denaro decise di fare una pubblica denuncia e così scoppiò lo scandalo. Pensi forse che abbiano fatto qualcosa contro i preti che mi venivano a cercare? No. La mia punizione pubblica bastava e avanzava per lavare le loro coscienze. Mi hanno picchiato, frustato e marchiato. Mi hanno tenuto in carcere per due lune dandomi solo un po’ d’acqua e, ogni tanto, una minestra e alla fine mi hanno poi buttata fuori dalla città. Questa “P” è solo il segno esteriore delle sofferenze che ho dovuto sopportare per la maggior parte degli anni che ho vissuto. Vedi i miei vestiti colorati, ragazza? Per te sono belli, ma per me sono una condanna. Devo vestire in questo modo perché tutti sappiano che sono una prostituta, anche quando vado al mercato, anche quando cammino per la strada. Così anche i bambini pensano di avere il diritto di insultarmi e di sputarmi addosso. Tutti, soprattutto quelli che vorrebbero fornicare con me, ma non hanno i soldi per pagarmi. Per questo non esco mai di casa e sono costretta a inviare i miei servi per comperare il cibo o per andare a prendere l’acqua. E io, tra tutte, sono fortunata perché posso mantenere diverse persone al mio servizio. Ma la maggior parte delle donne che fanno questo mestiere non guadagna abbastanza. Molte muoiono a volte poco più che bambine per le malattie, le percosse dei clienti più depravati, la fame>. Anna aveva sgranato ancora di più gli occhi. Lo stesso sguardo che prima riservava ai gioielli adesso era tutto per la P marchiata sulla fronte di Adelaide. <È bene che io ti racconti la mia storia perché tu non possa pensare che tutte le cose che vedi io le abbia conquistate col mestiere>.

 

Mi hanno buttata fuori dalle mura di Pavia come un cane rognoso gridandomi “Tu, donna, sei la porta e lo strumento del Diavolo, tu hai circuito quello stesso sant’uomo che il diavolo non osava attaccare di fronte. È a causa tua che il figlio di Dio ha dovuto morire; tu dovrai fuggire per sempre in gramaglie e coperta di cenci”. Sono affamata, ho le vesti strappate, la schiena devastata dalle frustate e le ferite sono tutte infette. Ho la testa, le ascelle e il pube tormentati dalle pulci. I miei carcerieri mi hanno violentata a turno tutti i giorni che ho passato in prigionia, anche in due o tre assieme. Qualcuno di loro mi ha anche picchiata. Altri, invece, dopo avermi usata, mossi da compassione mi portavano un pezzo di pane nero come “ricompensa”. Sono arrivata a premiarli per questo cibo supplementare che mi ha consentito di sopravvivere regalando loro, la volta dopo, la massima collaborazione e impegnando tutte le mie arti. Quando ti hanno ucciso l’anima non hai alcun ritegno a piegarti per evitare anche solo una piccola pena tra le moltissime che ti stanno infliggendo. Adesso cammino senza scarpe e senza meta per le campagne. È inverno e sto morendo di freddo. I piedi mi sanguinano e non li sento più: sono così gelati che nemmeno percepisco più il dolore. Anche le mani sono ghiaccioli.
Vedo un fuoco poco distante in uno slargo vicino al sentiero: è la mia unica speranza di sopravvivere. Mi avvicino con prudenza, ma abbastanza da riuscire a scorgere un mercante che si è accampato e sta arrostendo degli uccelli spennati lì vicino e infilzati su un ramo. Ho paura di avvicinarmi: ormai so cosa è capace di fare un uomo. Nel carro c’è una coperta arrotolata in un angolo dietro ad alcune botti e ad alcune piccole casse di legno. Decido di rubarla. Scivolando tra i cespugli arrivo dietro al carro. Appena allungo una mano verso la stoffa, il mercante, che si è accorto di tutto e ha fatto il giro in senso opposto per prendermi alle spalle, mi balza addosso. Con la sua mano piccola e tozza agguanta il mio polso e mi gira il braccio dietro la schiena. Quindi mi spinge e mi piega sul carro dandomi un colpo sulla schiena dolorante, ancora martoriata dalle frustate. Nonostante io tenti di divincolarmi non gli è difficile alzare e stracciare definitivamente quello che rimane della mia veste. Poi, con forza, tenta di aprirmi le cosce, ma io lotto per non consentirglielo. Che importanza fa se mi violenta uno di più visto che non ne so più tenere il conto? Nessuna, ma l’istinto è più forte della ragione. Con l’altra mano, dopo avermi palpato ovunque così forte da farmi male, si tira su la tunica. E siccome non apro le gambe per consentirgli di soddisfare la sua voglia e sono piegata sul carro, decide che gli sarà più facile sodomizzarmi. Sai cosa vuole dire, vero, ragazza? A tutti gli uomini piace più di un rapporto secondo natura. A tutti, meno a quei pochissimi che lo aborrono totalmente, ma il mercante non è tra questi. Il dolore è forte e io so che opporsi serve solo a peggiorare la situazione e, in certi casi, ad aumentare il piacere di colui che ti sta usando violenza. Perché sono in tanti a provare piacere del dolore di una donna, fisico o psicologico che sia. Allora riesco a recuperare lucidità, mi lascio andare e proprio in quel momento il respiro di quel porco si fa affannoso, il ritmo rallenta. Il suo coso… – sì, hai capito di cosa parlo? – si affloscia. Poi quel bastardo tira un grido rauco. Si accascia sopra di me a peso morto, sbava sulla mia spalla. Io riesco a divincolarmi e d’istinto corro via. Lui cade a terra. Tira un grido. Rantola. Poi più nulla. Dopo pochi metri mi fermo e torno indietro. Mi avvicino lentamente, passo dopo passo per timore che si alzi all’improvviso. No, non respira più. Lo guardo per la prima volta in faccia da vicino. Ha pochi capelli lunghi solo sopra le orecchie e sulla nuca, la faccia rosea che sembrava proprio quella di un maiale. Gli occhietti piccoli, di un azzurro chiarissimo, liquido, sono rimasti sbarrati. Sulle labbra ha una smorfia. Tento di muoverlo con un piede. È morto, sì, morto stecchito. È come se il dio, lo stesso dio del vescovo che mi ha fatto frustare, avesse deciso di punire l’uomo per il suo peccato di lussuria – dubito che si sarebbe scomodato “solo” per impedire la violenza perpetrata nei confronti di una donna, per di più prostituta – fulminandolo proprio nell’istante del piacere. Mi chiedo perché non l’abbia fatto prima, quando le guardie mi tormentavano e quasi non mi lasciavano il tempo di dormire per godere del mio corpo un turno dopo l’altro. Non è il momento di fermarsi a pensare: stacco in fretta il cavallo dal carro, prendo la coperta e la bisaccia che il morto ha legata in vita. L’istinto è quello di fuggire. Penso di non avere tempo di aprire le casse di legno per vedere se c’è qualcosa di prezioso e arraffo solo un coltello, qualche pagnotta e del formaggio che il mercante teneva in un sacco. Poi penso anche che una donna da sola non può girare da quelle parti con una bisaccia piena e una coperta addosso. Così decido di spogliare il morto. Certo, mi fa impressione. Ma è ancora caldo e se lo faccio subito farò meno fatica. Mi faccio forza. Lo tocco appena con due dita. Poi torno a pensare che devo fare in fretta, prima che arrivi qualcuno. La disperazione è un’ottima consigliera, certe volte: abbandono ogni paura e gli tolgo le calze, la cintura, la guarnacca, che è di una bella pelliccia calda e infine la tunica. Raccolgo anche il mantello che ha persino il cappuccio e mi accorgo subito della bella spilla d’oro che serve per chiuderlo. Poi strappo un pezzo della mia tunica per fare una fascia che copra il marchio sulla mia fronte. Infine tiro via la cuffia al cadavere. Non è facile sistemarci dentro i miei lunghi capelli ormai tutti un nodo, ma alla fine riesco a farceli stare. Sfilando al morto le scarpe per togliere le calze mi ero già accorta che per me sarebbero state troppo grandi. Le infilo comunque, dopo aver avvolto i miei piedi con alcuni brandelli di stoffa della mia vecchia tunica, poi tiro i lacci e li lego stretti. Non sono proprio comodissime, ma almeno sono calde. E poi ormai andrò a cavallo, non più a piedi. Arriverò presto in un posto dove potrò comprare nuove calzature più adatte a me. Mi guardo attorno e vedo che ancora non c’è anima viva all’orizzonte. È scesa anche un po’ di nebbia. Allora mi permetto di perdere un po’ di tempo per frugare sul carro. Trovo una scatola di legno, chiusa dentro un sacco ben nascosto tra le botti. Dentro ci sono moltissime monete d’oro e d’argento. Tante che non le ho mai viste tutte assieme e probabilmente nemmeno in tutta la mia vita. È venuto il momento di allontanarmi velocemente col mio bottino. Cavalco fino a quando il buio copre ogni cosa cancellando i pochi colori che la nebbia lasciava percepire. Mi addentro a piedi in un bosco di alberi alti portando il cavallo per le briglie. Ho paura, ma non degli spiriti. Quelli non mi hanno mai fatto male. Ho paura degli uomini perché non hanno pietà nemmeno di chi gli fa provare piacere. Tutti sanno che i briganti non sono affatto rari da quelle parti. Dopo aver mangiato un po’ di pane e formaggio, cerco di dormire, ma non ci riesco. Fa freddo, poi ogni rumore mi fa saltare il cuore in gola. Così appena il cielo schiarisce riprendo il cammino. Cavalco per altre due ore fino a quando incontro un fiume che scorre placido attraverso la pianura. La nebbia si sta alzando finalmente, ma fa sempre più freddo. All’improvviso, sotto l’argine, vedo un ospizio, una chiesa e diverse capanne di contadini. Andando avanti vedo che ci sono anche un castello e un porto fluviale con delle barche e una larga zattera che, grazie a corde tirate da muli, va avanti e indietro unendo una sponda all’altra. Entro in paese e nella prima bottega compero dei vestiti nuovi, sempre da uomo. Voglio evitare che qualcuno possa riconoscere gli abiti del mercante. Finalmente porto addosso roba pulita e della mia misura. Il mantello lo scelgo più ampio, che nasconda meglio le mie forme di donna. Poi vado da un calzolaio che mi cuce le nuove scarpe nel tempo in cui io scambio il cavallo per un mulo e qualche moneta. So di perderci, ma in questo modo, penso, darò meno nell’occhio. Quindi entro nell’osteria per mangiare una minestra calda, la prima dopo molto tempo. Ordino un zuppa che si rivela gustosa e ricca di cereali, un bicchiere di birra e del pesce di fiume arrostito e mentre parlo con l’oste mi rallegro tra me e me del fatto che il freddo della notte mi abbia resa rauca la voce, così sarà più difficile capire che sono una donna e non un ragazzino. Al mio stesso tavolo sono seduti alcuni mercanti. Ascoltando i loro discorso scopro che mi trovo sulla via chiamata Francigena, ma questo mi dice assai poco. Stanno discutendo del viaggio che li porterà fino a una città che si chiama Genova, che, dicono, è un porto di mare. Lì compreranno merci appena sbarcate dalle navi. Faccio qualche domanda, mi offrono del vino. Mi chiedono dove stia andando e io rispondo che sono un giovane appena rimasto orfano in cerca di fortuna. Mi propongono di seguirli dicendomi che andare in giro da solo è pericoloso e che a Genova certo troverò un lavoro. Qualcuno, per mettere in imbarazzo l’adolescente impacciato che sembro, aggiunge ridacchiando che troverò persino una fidanzata. Uno di loro mi indica la ragazza che serve ai tavoli e mi chiede cosa le farei se l’avessi tra le mani. Mi tornano in mente le violenze, le guardie, il mercante. Per fortuna tutti scambiano l’ira che mi arrossa il volto con l’imbarazzo di un giovane timido e scoppiano in una fragorosa risata. Mi chiedono come mi chiamo e quanti anni ho. Colta alla sprovvista, incespico nella mia stessa ligua e di nuovo mi prendono in giro. Ho il tempo di ragionarci un attimo e dalla mia bocca esce il nome “Teudiperto”, quello di uno dei miei vecchi clienti, e che di anni ne ho 13. In questo modo durante il viaggio i miei compagni non si chiederanno perché a questo strano ragazzo non cresce la barba, perché la mia voce è così sottile e perché sono così minuto. Il freddo che fino ad ora è stato un fastidio adesso diventa una fortuna, perché sotto il mantello e la guarnacca, il mio seno, che ho fasciato stretto, è ben nascosto. In quel momento qualcuno entra e chiama i mercanti: è il loro turno di salire sulla chiatta e attraversare il fiume. Raccolgono tutte le loro cose ed escono. Io li seguo. Un porto è senza dubbio un buon posto dove esercitare la professione della prostituta, mi dico. Ammesso che riesca a trovare la forza di consentire di nuovo a un uomo di toccarmi. L’idea di viaggiare da maschio in compagnia di una decina di uomini non mi dispiace affatto. Quando arriviamo sulla sponda, prima vengono spinti sulla chiatta i nostri muli e qualche pecora di un contadino che le ha appena comperate al mercato, poi possiamo salire anche noi. Quindi la chiatta si muove, tirata dall’altra sponda. Sbarchiamo tutti, per primi gli animali, e ci incamminiamo. Non siamo soli. Altri mercanti si uniscono, anche solo per un breve tratto di strada, fino alla propria destinazione, altri si aggregano lungo il cammino. Si forma una vera e propria carovana. Sulla via troviamo i corpi di due uomini che sembrano morti da poco perché il loro sangue versato sul terreno non si è ancora raggrumato. Certamente erano due mercanti e sono stati sgozzati dai briganti. I malviventi gli hanno tolto persino i vestiti, come ho fatto io con l’uomo che mi ha violentata.
Qualche volta dormiamo all’aperto. Altre volte incontriamo un borgo e possiamo riposare e mangiare in un ostello. Resta, però, sempre qualcuno sveglio a fare la guardia. Perché si dice che i rapinatori assassini non agiscano solo sulla strada, ma anche negli ospizi, d’accordo coi proprietari. Si racconta di certe stazioni di posta dove i soffitti delle camere, fatti di pesanti tronchi d’albero assocurati con robuste corde, vengano fatti cadere di schianto sui mercanti addormentati che ne vengono schiacciati e che, dopo, i locandieri cerchino tra le budella e i brandelli di cervello e di ossa monete e oggetti preziosi.
I miei compagni sono molto piacevoli. Mi trattano tutti come fossi un figlio. Mi anticipano i pericoli che incontreremo lungo il percorso, mi insegnano a riconoscere gli animali e a cacciarli, anche se io non sembro molto portata anche perché non riesco a tendere l’arco. Mi aggiustano il basto del mulo che io non riesco mai a sistemare bene. La sera c’è sempre qualcuno che racconta una storia o un’avventura e quando credono che io dorma, mi rimbocca la coperta. Mi sento coccolata e mi fa uno strano effetto, perché è la prima volta che accade nella mia vita di orfana. Perché orfana lo sono davvero, da quando avevo appena sei anni. Sì, i miei compagni sono tutti meravigliosi, forse perché mi credono maschio come loro e mi coinvolgono in un cameratismo alla quale noi donne non siamo avezze, intente come siamo, sin da bambine, a gareggiare con le altre per grazia e bellezza. Solo uno di loro, Maione, sembra che mi corteggi come se se sapesse che non sono un ragazzino. Mi guarda con certi occhi languidi e negli accampamenti si mette sempre a dormire vicino a me. Una notte mi sveglio e scopro che ha allungato la sua mano sotto la coperta, il mantello, la tunica e che mi sta toccando il sedere. La sua carezza è leggera come una piuma, perché io non abbia a svegliarmi. Sento che ansima. Certamente si sta masturbando. Lo conosco questo modo di comportarsi degli uomini, ma speravo, in quanto maschio, di essere immune dalle molestie. No, nemmeno da uomo mi lasciano stare, è questo il mio destino. Il giorno dopo mi avvicino a Bartolomeo, il mercante più vecchio. Sottovoce gli racconto quello che è successo e gli dico che mi fa schifo e che ho paura mettendo su la migliore maschera da bimbetto spaventato che riesco ad imitare. Mi risponde imbarazzato che, sì, lo sa bene, anzi, lo sanno tutti: al suo compagno piacciono i ragazzini quanto le donne. Aggiunge che, personalmente, nulla ha da ridire se gli uomini con cui si apparta il compagno di viaggio sono consenzienti, ma nel caso in cui, come me, non lo siano occorre subito mettere un freno al suo comportamento prima che nella comitiva nascano inizimicizie. Mi raccomanda di svegliarlo, anche di notte, se dovesse succedere ancora, poi gira il cavallo e raggiunge Maione. I due parlano un po’, poi Bartolomeo torna in testa alla carovana e l’altro cavalca tutta la giornata con la testa bassa. La sera mi sistemo a dormire vicino al mercante più anziano e i miei problemi terminano lì. Mi chiedo se sarebbe stata la stessa cosa se Bartolomeo avesse saputo che sono una donna. Se si sarebbe preso comunque la briga di intervenire e se Maione avrebbe smesso di molestarmi come ha fatto pensandomi uomo o, piuttosto, avrebbe risposto a Bartolomeo di farsi i fatti suoi o se, ancora, passandosi la voce, tutti non si sarebbero fatti avanti, branco di lupi su una preda incapace di reagire e di sfuggire.
Il giorno dopo superiamo un fiume varcando un vecchio ponte romano ancora in ottime condizioni e passiamo per le vie centrali di un paese, dove è allestito un grande mercato. Finalmente, le discese e le salite finiscono e la strada si inoltra in una vallata pianeggiante tra le colline. Ci fermiamo poco dopo in una cittadina, dove si trova l’abbazia benedettina di Santa Maria. I più devoti tra noi vogliono rendere omaggio a Dio. Entriamo dentro la chiesa. Mentre qualcuno prega io mi guardo attorno. Mi stupisce un grande capitello. Rappresenta un essere bestiale. Forse un lupo, forse un diavolo, dalla cui bocca esce un tralcio con grappoli d’uva. Mi dico che è un segnale rassicurante. Che a volte da una cosa cattiva può nascere un futuro migliore, che dalla violenza che ho subito la mia vita ha avuto una svolta. Ora devo solo giocarmela bene. Il giorno dopo riprendiamo il cammino e dopo un po’, all’improvviso, mi si para davanti una pianura che sembra in movimento. È come se un immenso campo di grano spazzato dal vento si fosse tinto improvvisamente di blu, di grigio e di verde scuro, con alcuni puntini bianchi. Senza accorgermene, fermo il cavallo. Bartolomeo torna indietro per vedere cosa mi sia successo. Mi guarda in faccia, poi sposta lo sguardo seguendo la direzione del mio e, infine, scoppia a ridere. <Pare che il giovane Teodiperto non abbia mai visto il mare> spiega agli altri. Allora, mi dico, è quello il mare! Quella massa che si muove è acqua, acqua fino a dove i miei occhi arrivano a vedere. Percorriamo ancora un po’ di strada e la riva si avvicina sempre di più. “Il mare, il mare” ripeto ossessivamente. Sì, il mare non è fermo come io credevo. Il mare si muove. Quando arriviamo sulla spiaggia, alla foce del fiume, scendo da cavallo. Bartolomeo mi raccomanda di non bagnarmi le scarpe e i vestiti, <perché è inverno e poi moriresti dal freddo> dice. Io mi avvicino alle onde che si spingono verso la spiaggia e lì si infrangono con un boato. Arrivo appena a toccare la spuma bianca, quella che l’acqua spinge più in su, prima che ricada nella grande massa che oscilla, si alza, arretra, sospira, ulula. Faccio qualche passo avanti, sui sassi bagnati, e poi devo correre indietro perché sta arrivando un’altra onda. Questo segreto che mi si è rivelato vale per me tutte le pene passate. Dalla bocca del diavolo, mi dico, è uscita la cosa più preziosa, un dono che mai potevo immaginare di ricevere: il mare. Bartolomeo deve letteralmente trascinarmi via, perché, dice, la strada è ancora lunga. Da Luna bisogna risalire le ripide colline infestate di briganti. Mi dicono che bisogna raggiungere Bodetia[1], poi Ad Monilia[2], Segesta Tigulliorum[3], Portum Delphini[4] e poi scendere e salire si nuovo. Ma il mare sarà sempre là, alla nostra sinistra. È vero. A volte scompare dietro la vegetazione e poi riappare dietro una curva e sembra una serie di colline d’acqua verde-blu dietro alle vere colline. A volte, invece, compare ai piedi di una scarpata come una tavola grigia oppure uno specchio azzurro che riflette i raggi del sole moltiplicandoli e si trasforma, così, in un cielo in movimento punteggiato di stelle luccicanti. Ci vogliono ancora alcuni giorni, ma alla fine arriviamo a Genova. Passiamo su un lungo ponte dalle arcate basse che ci consente di attraversare un torrente dalla foce enorme, proseguiamo per i campi e poi ci addentriamo in un borgo di poche case sparse pieno di botteghe che vendono orci e pentolame. Infine arriviamo alla porta della città, che sta su un colle. Quindi la superiamo e discendiamo verso il mare lungo una strada dissestata piena di fango fino al porto grande dove sono ormeggiate diverse enormi navi da carico. Lì, proprio davanti ai moli, arriviamo ad una osteria che mette a disposizione anche alcune camere. Ricoveriamo i cavalli nella stalla, poi ci sediamo ai tavoli dove ci servono una buona minestra e una gustosa focaccia ripiena di verdure e formaggio. Poi saliamo una scala di legno che porta alle camere e lì, tanto siamo stanchi, ci addormentiamo che è ancora giorno. Ci svegliamo tutti di buon mattino. Bartolomeo mi dice che sta andando a trattare alcune merci al porto e mi chiede se voglio seguirlo. Ma io preferisco cominciare a guardarmi in giro e a cercare una casa. Ne trovo una in buone condizioni proprio lì vicino. A dire il vero è molto grande, toppo per una sola persona. Penso che potrò organizzarci un’osteria e vivere così senza dover tornare a prostituirmi. Le finestre di un lato della casa danno proprio sui moli e potrò vedere ogni giorno il mare. La cifra che mi chiedono è eccessiva e penso di chiedere a Bartolomeo di trattare lui per me. Certo, dovrò confessargli che non sono un ragazzo e da quel momento non potrò più dormire coi miei compagni. Ma loro, comunque, tra qualche giorno se ne andranno percorrendo a ritroso la strada che abbiamo fatto per arrivare fino a qui, questa volta molto più lentamente, coi carri appena comprati e carichi di merce. Quando il vecchio mercante torna all’osteria è ormai ora di pranzo. E’ soddisfatto, perché ha comperato a un buon prezzo incenso africano e preziose tinture per le stoffe: il rosso di Tiro e l’indaco, il colore della purezza. Ultimamente, mi spiega, tutto ciò che arriva per mare costa molto di più per via delle scorribande dei saraceni che attaccano le navi da trasporto. Dice che è una fortuna per lui aver comperato a quei prezzi. Il lo lascio parlare. E’ così entusiasta che non mi ascolterebbe se gli sottoponessi il mio problema. Quando ha terminato il suo lungo discorso gli dico, finalmente, che devo parlargli. E che deve essere da solo: non voglio che gli altri sentano. <Vieni, sediamo a questo tavolo, qui, nell’angolino – mi dice -. Dimmi pure ragazza>. Io rimango di pietra, Bartolomeo ha capito tutto. Ma da quando sa che sono una donna e come se ne è accorto? Mi risponde che il mio modo di cavalcare, di parlare, di muovere le mani gli avevano subito suscitato forti dubbi sul mio sesso. La conferma gli era arrivata da Maione. Quella notte in cui mi ero accorta che mi toccava, quando finalmente mi ero addormentata, il mercante aveva frugato sotto la mia tunica senza trovare quel che si aspettava. Ne era rimasto stupito e, quando Bartolomeo gli aveva chiesto la ragione del suo comportamento, gli aveva detto che mai più sarebbe successo informandolo anche della sua “scoperta”. Bartolomeo lo aveva convinto a non dire niente agli altri e con me aveva fatto finta di non sapere. A quel punto non posso fare altro che chiedergli di perdonarmi per la bugia, gli racconto quello che mi è successo, gli faccio vedere la P sulla fronte e gli chiedo di aiutarmi. Lui acconsente e prima di sera la casa sul porto è mia. Bartolomeo ha trattato fin quasi a dimezzare il prezzo rifiutando la percentuale che gli ho offerto. Poi mi ha aiutato a portare tutta la mia roba nella nuova dimora. Ci sono già un tavolo, un giaciglio, qualche cassapanca, appena due sedie. Il mercante che la possedeva è fallito e in casa non aveva quasi più nulla, aveva svenduto tutto per tentare di salvarsi almeno l’onore. Bartolomeo ha portato con se anche una piccola botte di vino che beviamo insieme davanti al camino. È il primo uomo che mi rispetta, che mi tratta come una persona e non come una donna. Ma donna devo tornare e così compero un vestito da signora, e lo indosso, anche se mi sta un po’ largo: ho bisogno di qualcosa da mettere addosso mentre aspetto gli altri abiti che ho commissionato al sarto, scegliendo le stoffe più belle. Finalmente sciolgo e lavo i capelli, ma non riesco a districarli e così, purtroppo, li devo tagliare. Preparo anche una zuppa e imbandisco la tavola con formaggio e pane. Bartolomeo ed io parliamo a lungo. Parliamo e continuiamo a bere. Il caldo e il vino mi fanno scivolare in uno stato di torpore e poi i miei occhi si chiudono. Al mattino mi sveglio completamente vestita, adagiata sul letto. La cassetta delle monete non c’è più. Corro all’osteria, ma il mercante è già partito. Oltre la casa non mi resta altro che l’abito troppo largo che indosso, la spilla d’oro del mercante che mi ha violentava, le stoviglie e i pochi cibi che ho comperato ieri. Devo pagare i vestiti e le scarpe che ho ordinato. E poi devo vivere. Non mi resta altro che vendere la casa o tornare a fare la prostituta. Scelgo la seconda opzione. Coi pochi soldi che mi sono rimasti nella tasca dell’abito, il resto degli acquisti di ieri, compero un abito rosso – la tinta delle puttane – e del minio da darmi sulle labbra per farle più rosse. Tolgo la fascia dalla fronte. Così tutti capiteranno cosa offro. Passeggio per le strade della città. Sorrido agli uomini soli, arrivo fino al porto. È lì che trovo la maggior parte dei clienti, uomini che scendono a terra dopo settimane, a volte mesi, senza aver toccato una donna. Normalmente si sbrigano in fretta e per me è una grande fortuna perché gli uomini, ormai, mi fanno schifo. Credo sia normale quando così tanti hanno voluto e saputo farti male.
Alla fine mi dedico solo ai marinai perché come arrivano se ne vanno e non hanno il tempo di diventare insistenti e noiosi né di affezionarsi. Quanto a me, non corro il rischio che accada. Dopo le violenze che ho subìto a Pavia non li so vedere più come compagni di letto se non per denaro, dopo il furto di Bartolomeo li disprezzo con tutta l’anima e non penso possano essermi amici. Tra i clienti c’è sempre qualcuno che cerca di scappare senza pagare, che chiede di essere insultato o di insultarmi, magari di darmi anche qualche pacca sul culo o di stringere i miei capezzoli tra le dita fino a farmi male. C’è anche chi, quando è soddisfatto e rivestito, tira fuori un coltello per cercare di non versare quanto deve. Presto mi rendo conto di guadagnare abbastanza da potermi permettere un servo che stia dietro la porta, pronto a intervenire. Poi, parlando con alcune colleghe, mi rendo conto che posso fare di meglio: loro hanno bisogno di un posto dove soddisfare i clienti ma non possono comperare una casa. Così spesso sono costrette a pagare al padrone dell’ospizio più della metà di quanto guadagnano. Bene, affitterò a loro le stanze al primo piano della casa e di quel guadagno vivrò smettendo di prostituirmi. Loro potranno pagare un prezzo onesto, un quarto di quanto guadagnano, la metà di quanto spendono adesso. Ho otto stanze oltre quella dove dormo. Guadagnerò ogni mese il doppio di quanto ricavavo prostituendomi. Non dovrò più toccare un uomo in vita mia e non rischierò più di morire di una di quelle malattie con cui gli uomini contagiano le prostitute come le loro mogli, accumunate, per una volta, in un unico destino. Non so come abbia fatto a salvarmene fino ad oggi. Sono fortunata ad essere ancora viva e sana ed è meglio non sfidare ancora la fortuna. L’idea è buona. In pochi mesi riesco a conquistare una posizione stabile. Le ragazze sono contente e io più di loro. Ora i servi sono due. In più, le ragazze ed io paghiamo una donna che si occupa di preparare il pranzo per tutti e di rassettare le stanze. Gli affari vanno a gonfie vele, se ne accorge anche la Curia, che manda un proprio emissario ad esigere la decima. A dir la verità mi sembra incredibile, ma l’uomo che bussa alla porta per pretendere il pagamento dice di essere inviato proprio dal Vescovo. Rifiuta di entrare e si guarda attorno mentre mi parla, per timore di essere scoperto davanti alla porta di un lupanare. Io non mi fido: mi metto un vestito rosso scuro, un po’ meno vivace degli altri e vado fino a San Siro, dove chiedo di essere ricevuta da qualcuno che si occupi di queste cose. Mi fanno entrare e parlo con un monaco che appena capisce chi sono chiama le guardie per farmi buttare fuori dal convento. Mi hanno già afferrato le braccia quando, per fortuna, arriva un prete alto alto, coi capelli brizzolati, gli occhi azzurri come il mare a riva e mani grandi e ben curate. Non è un prete come gli altri perché i suoi vestiti sono molto ricchi e ha al collo una croce tempestata di pietre preziose. Ferma le guardie, congeda il monaco che si affretta a uscire dalla stanza con grandi inchini, camminando all’indietro. Il prete sorride d’un sorriso chiaro, franco, solare. È un bell’uomo, dalla struttura imponente. Mi parla curvandosi un po’, perché è molto più alto di me. Mi guarda diritto negli occhi. Non con la presunzione di chi sa di avere la verità in tasca, ma con la forza interiore della persona che non conosce la menzogna. Per la prima volta sono imbarazzata a confrontarmi con qualcuno, ma mi faccio forza e tento di spiegargli quanto è accaduto. Gli dico dell’uomo arrivato alla mia porta e della sua richiesta, gli spiego che non è mia intenzione non pagare, se questo è quello che devo fare lo farò. Spiego che desidero soltanto sincerarmi che sia tutto regolare e che nessuno stia tentando di truffarmi. Mi rendo conto, a un certo punto, di essere un torrente in piena: parlo, parlo, parlo. Non smetto più di parlare. Di fronte a quel sorriso placido, a quella testa inclinata su un lato che sembra un segnale di benevolenza, a quell’espressione bonaria che è quella di chi vuole capire e capisce il pieno significato di ogni mia parola, mi sembra di dover giustificare quello che faccio, di dover raccontare perché sono arrivata a farlo e così gli dico di quando sono rimasta orfana, di quando ho dovuto prostituirmi per non morire di fame, dalle violenze di Pavia (ovviamente omettendo il fatto che i frequentatori del mio letto fossero soprattutto preti) e di quella che ho subito in strada, infine del furto dell’anziano mercante. Lui aspetta che io abbia finito, poi mi prende le mani, mi chiede qual è il mio nome e mi dice di chiamarsi Alfonso. Allora non ho sbagliato: non è un prete qualsiasi, è l’attendente del vescovo in persona! Mi prega di accomodarmi su una sedia che sta vicino ad un tavolo coperto di libri e si siede anche lui. Non dall’altra parte come mi aspetto, ma proprio di fronte a me. Quindi chiama il servo e gli chiede di portare due bicchieri di birra e infine mi prega di continuare. Ma io mi rendo conto di non saper dire. Gli spiego che sono solo una donna condannata dalla vita ad essere sola e peccatrice. Una donna la cui ansia, esaurita la speranza di poter vivere la vita accanto a un uomo da amare e dal quale essere amata e col quale fare dei figli, è quella di non morire di fame, di non patire il freddo e di vivere in pace. Alfonso mi ascolta, abbassa la testa. Sembra riflettere. Poi alza il volto e recita: <Uno dei farisei invitò Gesù a mangiare da lui. Egli entrò nella casa del fariseo e si mise a tavola. Ed ecco una donna, una peccatrice di quella città, saputo che si trovava nella casa del fariseo, venne con un vasetto di olio profumato; e fermatasi dietro si rannicchiò piangendo ai piedi di lui e cominciò a bagnarli di lacrime, poi li asciugava con i suoi capelli, li baciava e li cospargeva di olio profumato. A quella vista il fariseo che l’aveva invitato pensò tra sè e sè. “Se costui fosse un profeta, saprebbe chi e che specie di donna è colei che lo tocca: è una peccatrice”. Volgendosi verso la donna, Gesù disse a Simone: “Vedi questa donna? Sono entrato nella tua casa e tu non m’hai dato l’acqua per i piedi; lei invece mi ha bagnato i piedi con le lacrime e li ha asciugati con i suoi capelli. Tu non mi hai dato un bacio, lei invece da quando sono entrato non ha cessato di baciarmi i piedi. Tu non mi hai cosparso il capo di olio profumato, ma lei mi ha cosparso di profumo i piedi. Per questo ti dico: le sono perdonati i suoi molti peccati, poiché ha molto amato. Invece quello a cui si perdona poco, ama poco”. Poi disse a lei: “Ti sono perdonati i tuoi peccati”. Allora i commensali cominciarono a dire tra sé: “Chi è quest’uomo che perdona anche i peccati? ”. Ma egli disse alla donna: “La tua fede ti ha salvato; va in pace!>. Quindi il prete incalza <Chi sono io per giudicare i tuoi peccati?>. Poi chiude ancora gli occhi e ricomincia: <Non ergo duo mala sunt conubium et fornicatio, quorum alterum peius, sed duo bona sunt connubium et continentia, quorum alterum est melius[5]>. E, infine, aggiunge: <Cum vero vir membro mulieris non ad hoc concesso uti voluerit turpior est uxor, si in se, quam si in alia fieri permiserit[6]>. Contrariamente alla maggior parte delle persone che conosco, so leggere, anche se non scrivo bene. È strano che una puttana sappia leggere e scrivere, ma è proprio perché lo sono che ho imparato a farlo. Me l’ha insegnato un prete a Pavia, uno dei miei clienti, che desiderava gli leggessi frasi della Bibbia e di altri libri santi che gli ricordassero la gravità del suo peccato prima di gettarsi sul mio corpo e, a cose fatte, desiderava che io lo flagellassi per punirlo subito della sua depravazione e saldare subito il conto con l’Inferno. Mi pagava bene e non mi ha mai fatto del male. Anzi, a me piacevano gli incontri settimanali con lui soprattutto perché, quando lo raggiungevo nella sua chiesa, tirava fuori uno dei suoi enormi libri e mi insegnava il significato delle parole. Mi sembrava straordinario poter leggere e capire le frasi scritte tanti secoli prima, dare vita con la mia voce a cose dette da persone morte da centinaia di anni. Quante volte ho letto ad alta voce brani di quel libro che adesso Alfonso sta citando. Tante che le so a memoria e quando lui le recita, io le recito assieme a lui, scandendo la metrica, come mi hanno insegnato. <Chi sei? Una prostituta che conosce Sant’Agostino… Una meretrice che si prende la briga di entrare in cattedrale a discutere le decime…> dice. <Io non le discuto, voglio solo sapere se è vero che è la Chiesa a chiederle o se sono stata presa di mira da un truffatore> gli rispondo piccata. E allora lui sorride e mi spiega che da tempo è così a Roma e ora la tassa è stata introdotta anche a Genova. Mi chiede una descrizione della persona che mi ha bussato alla porta e quando gli spiego dell’omino un po’ curvo, con pochi capelli e sorrido parlando della paura che aveva di essere riconosciuto sulla porta del lupanare mi dice che posso pagare a lui senza timore: è il riscossore della Curia. La sua voce è un sussurro, ma allo stesso tempo ha il calore e la forza di un vento estivo. Quando parla ha le mani poggiate sul grembo. Ecco, ne alza una. Con un gesto delicato ma deciso sposta la fascia che ho sulla fronte e vede la P marchiata a fuoco che mi deturpa il volto. Io gli racconto quanto mi è accaduto con lo sguardo che non può rivolgersi che a terra, cercando di misurare le parole per non offenderlo. Non perché abbia timore della sua reazione, ma perché non voglio che pensi che per l’abito che porta lo accomuno a chi mi ha fatto tutto questo. All’improvviso entra senza bussare un ragazzo mingherlino, dall’aria cupa, completamente vestito di nero con bordi dorati al mantello. Non è un prete, ma ha l’aria austera. Mi lancia uno sguardo sprezzante, disgustato. Fa una smorfia seguendo con gli occhi la mano di Alfonso dalla mia fronte fino al braccio e alla spalla del segretario del Vescovo. Poi fissa il prete negli occhi con odio. <A questo siamo arrivati? Riceviamo le meretrici nel convento> sibila. Solo in quel momento Alfonso distoglie gli occhi dalla mia fronte, abbassa la mano, si volta verso il giovane e comincia lentamente a recitare: <“Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”>. Il ragazzo risponde <“Oh, non sapete che gli ingiusti non erediteranno il Regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né idolatri, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il suo Regno”>. Mi stupisce che quel ragazzetto osi sfidare il sacerdote. I due continuano la loro schermaglia verbale per un po’. Alla fine Alfonso pare esausto e chiude la discussione in modo brusco: <“Chi di voi, se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova? Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento, va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta. Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione”. E adesso vai, Gusberto, e la prossima volta che vuoi entrare ricorda di bussare alla porta>. Si capisce che il giovane vorrebbe controbattere, che vorrebbe trovare qualcosa di velenoso da dire. Non ci riesce, invece, e rimane lì, col viso in fiamme. Probabilmente la sua età lo porterebbe a reagire con un gesto violento, magari un pugno ben assestato sulla faccia dell’interlocutore. Ma Alfonso gli indica la porta, lui abbassa la testa, si gira e dà un calcio fortissimo all’asse di legno che si spalanca per poi richiudersi inghiottendolo. Il prete controlla che il ragazzo si sia allontanato, poi si gira verso di me. <È stato un piacere parlare con te, Adelaide. Ora devo andare a riferire al vescovo quanto è accaduto prima che Gusberto lo raggiunga e gli dia la sua maligna versione dei fatti, il che sarebbe un guaio sia per me sia per te. Spero di incontrarti ancora e magari di convincerti ad abbandonare il tuo lavoro da sfruttatrice del meretricio>. Mi benedice, poi mi accarezza la guancia con una mano. E mentre le sue dita sfiorano la mia pelle sento un brivido, un’emozione mai provata prima.

 

<Per la prima volta, ragazza, ho trovato una persona con la quale discutere e confrontarmi senza timore. Perché Alfonso prima che prete è uomo e, bada bene, non ho detto “maschio”. È un uomo buono e onesto come non ne ho mai incontrati. Giusto, convinto della sua fede, generoso con chi ne ha bisogno, sempre pronto ad ascoltare. Non possiamo vederci in cattedrale o in convento e certo lui non può venire qui. Ci incontriamo al trivio del bosco vicino al quale c’è una casa dove possiamo sederci e parlare bevendo un bicchiere di vino e mangiando pane o frutta. Non abbiamo mai avuto contatti carnali. A volte una carezza, in qualche occasione un bacio leggero sulle labbra, più spesso sulla fronte. Dobbiamo stare attenti, perché quel giovane, quel Gusberto, lo odia e farebbe qualsiasi cosa per screditarlo. Cosa direbbe il Vescovo se sapesse che il suo attendente si incontra con una prostituta – perché per tutti io resto quello, ragazza. Io sono “la prostituta” -. Quando riusciamo a incontraci, parliamo ridiamo e mangiamo assieme. Io cucino una zuppa o arrostiamo un pollo e ce lo dividiamo da buoni fratelli. Lui continua ad insegnarmi a leggere e a capire quello che leggo. Una parola dopo l’altra, mi ha convinto ad aiutare le donne che lo vogliono ad abbandonare la prostituzione. Mi aiuta a trovare loro una via di scampo, una sistemazione. Se tu vuoi, stanotte puoi imbarcarti su una nave che salpa dal porto in direzione di Vado Sabatia. Se vorrai approfittare dell’occasione troverai al tuo arrivo una casa dove fare i lavori domestici e badare al giardino e all’orto. Avrai di che mangiare e nessuno conoscerà il tuo passato né alcuno dei tuoi parenti immaginerà mai quale sia il tuo rifugio. Trovati al porto tra la terza e la quarta vigilia. Io sarò là ad aspettarti>. Anna aveva sorriso felice, aveva baciato la mano di Adelaide, le aveva promesso che ci sarebbe stata e di non dubitare del suo arrivo. Si era dimenticata di dire alla prostituta che quel Gusberto era proprio l’uomo che doveva sposare la sorella. Quando se ne era ricordata aveva già percorso metà della strada in salita che la separava da casa. Aveva pensato che avrebbe potuto dirlo quando si sarebbero riviste e si era ripromessa di raccomandare alla donna di vegliare sulla povera Gismunda, se poteva. Adesso era più urgente raccogliere le poche cose che aveva e poteva portare con sé: un pettine d’osso a denti larghi, il mantello pesante e il pegno d’amore del suo Seamus: un ciondolo di ferro con due cuori intrecciati. La ragazza non aveva potuto fare a meno di pensare che forse avrebbe potuto ritrovare il suo amore proprio a Vado Sabatia. Magari stava lavorando in quel posto che le sembrava così lontano, tanto lontano che bisognava arrivarci via mare. Finalmente lei e il suo uomo sarebbero stati liberi di amarsi e di avere figli. Aveva preparato tutto e si sistemata nel giaciglio più vicino alla porta. Quando l’intera famiglia stava dormendo aveva guardato la sorella. Gismunda aveva il sonno agitato. La mattina dopo di sarebbe fidanzata e ad Anna spiaceva che il futuro marito fosse un uomo così maligno, livoroso e cattivo. Aveva esitato un attimo, poi si era detta che non poteva perdere tempo, che ogni secondo che passava rischiava di essere scoperta. Allora aveva sceso le scale di legno badando bene a non farle scricchiolare, poi aveva superato il magazzino di pece, aveva aperto il portone solo un poco, facendo attenzione che i cardini non facessero rumore, ed era scivolata fuori. Si era precipita giù per la strada, evitando quella più ampia e diretta e correndo nei viottoli tra le case che raggiungevano il porto. Il vento freddo che si incanalava su per le strada e sembrava correrle incontro per contrastare la sua fuga le feriva il volto coi suoi aghi di ghiaccio, ma non le importava. Là, in fondo a quel vicolo buio che stava percorrendo sotto la pioggia battente, inciampando su ogni pietra, c’era la sua libertà. Era arriva sul molo che era appena passata la terza vigilia. Si era seduta su un muretto sotto la pioggia e guardava le barche, cercando di indovinare quale sarebbe stata quella che l’avrebbe portata verso la sua nuova vita, una vita nella quale sarebbe stata finalmente libera dal padre padrone. E mentre stava lì a pensare, dando le spalle alla città che non aveva mai amato, che l’aveva vista subire tante cattiverie, che l’aveva vista piangere tante volte, qualcuno le si era avvicinato di soppiatto alle spalle e le aveva spaccato la testa con un grosso bastone. Aveva calato il primo colpo con forza. Poi, quando Anna si era accasciata rantolando, con un fiotto di sangue che le usciva dalla bocca, aveva continuato a batterla fino a fracassarle la testa. Non pago di questo gesto scellerato, l’uomo si era accanito sulla giovane con un grosso coltello e infine, quando ormai era già morta, con quella lama le aveva inciso una “P” sulla fronte coperta di sangue e aveva buttato il suo corpo in mare. All’improvviso aveva sentito un fischio: era il segnale che bisognava scappare. Adelaide e gli uomini dell’equipaggio pronto a salpare stavano arrivando. Lo avevano visto correre via quell’uomo col cappuccio tirato sul capo e il mantello lungo fino ai piedi. Avevano visto una sola ombra, ma avevano sentito i passi veloci di almeno tre persone. Piuttosto che inseguirle, i marinai avevano preferito buttarsi nelle fredde acque del porto per tentare di salvare la donna. L’avevano ripescata e adagiata sul molo con l’aiuto degli altri che nel frattempo erano accorsi. Avevano subito capito che non c’era più niente da fare. Anche chi conosceva Anna aveva faticato a capire che era lei, sfigurata come era dai colpi del bastone e dal coltello. Non restava altro da fare che portare ai genitori il povero corpo. Adelaide, tornando a casa, a metà strada si era dovuta fermare e aveva vomitato. L’orrore non si lava via dalla mente con un battito di ciglia. È indelebile come la “P” marchiata a fuoco sulla fronte della prostituta.

©Monica Di Carlo. Tutti i diritti riservati. Vietati la riproduzione anche parziale del testo e qualsiasi uso non autorizzato dall’autore

NOTE

[1] Bonassola

[2] Moneglia

[3] Sestri Levante

[4] Portofino

[5] <Quindi il matrimonio e la fornicazione non sono due mali, di cui uno è peggio dell’altro, ma sono due beni il matrimonio e la continenza di cui uno è meglio dell’altro>. (Sant’Agostino d’Ippona, “De bono coniugali”

[6] <Ma se un uomo desidera usare il corpo della moglie in un modo non concesso, è più turpe che la moglie lo permetta su se stessa che su un’altra>. (Sant’Agostino d’Ippona, “De bono coniugali”

Prologo e I CAPITOLO “Di come Gusberto si scelse la moglie”

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PROLOGO

Voglio raccontare questi accadimenti così come in gioventù li ho appresi dalla viva voce di coloro che li hanno vissuti, possa Iddio misericordioso ammettere questi umili peccatori al Suo cospetto anche se non sono degni della sua infinita bontà. Li ho annotati giorno dopo giorno nel corso degli anni, aggiungendo via via i particolari dei quali venivo a conoscenza o che, per qualche motivo, mi apparivano all’improvviso più chiari e nitidi. Vorrei rivedere quanto ho scritto nel suo complesso, ma sento di non averne più il tempo e per questo mi limito a qualche correzione resa necessaria, per amor di verità dalle informazioni delle quali sono fortuitamente venuto in possesso nei tempi più recenti. La fatica che sto facendo per riordinare questi miei fogli, alcuni dei quali molto vecchi, rovinati e sbiaditi, è tanta, perché ormai la vista mi fa difetto e la mia schiena mal sopporta di rimanere a lungo piegata sul banco della biblioteca. Tuttavia sfido con letizia i limiti che l’età mi impone giacché il fine è, a mio modesto giudizio, importante: i posteri non dovranno smarrire la memoria di quanto è accaduto perché perderla definitivamente significherebbe cancellare l’ultimo brandello di verità al riguardo dei terribili momenti che questa città si è trovata a vivere. Poca cosa è, purtroppo, quel che è riuscito a sfuggire alle fiamme del rogo appiccato dai Saraceni alla vecchia cattedrale di San Siro fuori le mura. Resta né più né meno quello che i sopravvissuti hanno potuto raccontare, aggiungendo dicerie, favole, iperboli e arricchendo la verità a proprio uso e consumo, magari soltanto per descriversi come eroi a figli e nipoti o per metterli in guardia da quello che era e resta il nemico. Era l’agosto del 935, quando, durante il sacco di Genova, le fiamme distrussero gli archivi del Vescovado divorando i libri, gli antichi rotoli e tutti gli archivi: carta più preziosa dell’oro, degli arredi e dei paramenti, più preziosa anche dei gioielli tempestati di pietre custoditi nelle segrete le cui porte si spalancarono alla furia incontenibile e feroce dei predoni arabi. Dirò subito che tenterò di non peccare di leggerezza. Per questo, in ultima stesura, ho eliminato alcuni degli episodi di vita quotidiana che avevo annotato, circostanze di per sé colorite, ma non utili alla comprensione per colui che si accingerà a conoscere ciò che non è raccontato altrove. L’ho fatto proprio per allontanare la tentazione della superficialità morbosa che è insita nella natura umana e per questo è insidiosa trappola, nella quale chi scorre queste righe deve cercare di non cadere. Mi rendo conto che persino io faccio fatica a evitarla. Troppo facile, ma poco onesto, sarebbe ridurre tutto a una storia d’amore e d’interessi, di morte e di vita, di odiosa irriconoscenza o di preziosa d’amicizia, elementi che, pure, si trovano, nessuno escluso, in queste pagine. Comincerò, dunque, col dire dello spaventoso incendio che rase al suolo chiese, case e botteghe e distrusse la cattedrale in una notte di cielo terso e vento teso di insolita tramontana in piena estate, quella dell’assalto degli infedeli nel corso della quale dei quattromila abitanti della città, più di un terzo, ne risultò ucciso a fil di spada e molti altri furono catturati mentre il resto della popolazione fuggiva sui monti e nelle vallate a cercare riparo e rinforzi. Un’altra difficoltà devo affrontare: non mi è facile mantenere l’imparzialità del cronista che l’onestà mi impone, perché è umano che ad ognuno di noi un proprio simile risulti in qualche modo più vicino e per questo in qualche modo giustificato anche per le azioni meno opportune o addirittura nefande. Così com’è umano che verso altri, che siano stati realmente conosciuti o semplicemente tratteggiati dalle parole altrui, ogni soggetto possa sviluppare una naturale avversione. Non pretendo di raccontare la verità assoluta perché non ho potuto attingere a tutte le fonti possibili: alcuni dei protagonisti di questa vicenda non li ho mai conosciuti. Taluni sono morti prima che potessi chiedere la loro versione della verità. Di altri si sono perse le tracce. Di certo c’è che di ogni persona della quale racconto in questo libro ora non resta che la memoria dei pochi che come me hanno vissuto a lungo. Quanto ho appreso risale, dicevo, al tempo in cui ero un giovanissimo seminarista, nei primi anni del vescovado di Teodolfo, il quale costruì la nuova cattedrale di San Lorenzo – e del quale, per inciso, fui a lungo segretario – giacché io nacqui settimino allo scoccare della settima ora del giorno di Natale dell’anno dell’assalto saraceno e questo è tutto quanto conosco ufficialmente delle mie origini perché nelle registrazioni non si leggono né il nome di mio padre né quello di mia madre. Soltanto si dice che fui affidato alla Chiesa dopo essere miracolosamente sopravvissuto ai primi giorni di vita in cui ogni ora sembrava quella giusta perché me ne andassi anzitempo al cospetto del Signore, tanto che il battesimo mi fu impartito dal vescovo Ramperto in persona subito dopo la nascita, un atto pietoso perché la mia anima non fosse relegata nel Limbo con tutti coloro che portano seco l’orribile macchia del peccato originale. L’argomento, però, non sono i dettagli della mia lunga e insignificante esistenza e poco importa pure che il lettore sappia che, se il Signore vorrà concedermelo, vedrò domani per l’ottantunesima volta il sorgere del sole nel giorno della Santa Natività, essendo vescovo di questa città ormai da molti anni Giovanni II. Quello che spero è di rendere un servizio a chi verrà dopo di me, perché possa conoscere veramente un pezzo di storia che per la tragica contingenza degli eventi, non è mai stata scritta e certamente ormai soltanto io conosco così bene. La mia speranza è che quando saranno ormai trascorsi i secoli, il passato possa insegnare qualcosa al futuro ormai diventato presente. Nasconderò questo manoscritto affidando il suo ritrovamento alla Provvidenza. Sia Dio Onnipotente a decidere se e quando sarà il momento che qualcuno lo trovi aprendo le antiche lapidi dei monaci. Lo depositerò con cura vicino allo scheletro del prete che ne è il protagonista. Aprirò la sua bara in gran segreto per deporre tutte le pagine scritte giorno dopo giorno, pagine in cui ho raccolto la sua storia e quella degli uomini del suo tempo. Questo perché – è bene che tu che stai leggendo lo sappia – buona parte di quello che conosco mi è stato rivelato in confessione al momento dell’estrema unzione proprio dal sacerdote Alfonso, segretario del vescovo Ramperto, il quale mi fece l’onore di insegnarmi molto di quello che so e il metodo per acquisire ulteriore conoscenza. Molto ho scritto di questo figlio di Dio e altro aggiungerò, se la vita non mi verrà meno a breve e la vista mi assisterà fino a quando avrò terminato, aggiungendo alcuni fogli all’involto che sto preparando per essere depositato nella tomba di quel peccatore e servo di Dio al quale il Signore ha già presentato il conto per i suoi peccati, ma certamente, ha anche attribuito il compenso per le sue azioni giuste e misericordiose del quale godrà quando raggiungerà il regno dei cieli. E se non ce la farò a finire e se l’Altissimo non vorrà concedermi il tempo per occultare il libro agli occhi dei miei contemporanei, spero che almeno mi dia la forza di bruciarlo, perché oggi non è tempo che si conoscano questi accadimenti. Sono cambiate molte cose rispetto agli anni dei quali in seguito andrò a raccontare, alcune delle quali riguardano l’organizzazione del potere nella città, mentre altre semplicemente gli usi e le consuetudini. La memoria di uomini buoni, contaminata dalla lettura che se ne potrebbe dare nel tempo attuale, troppo lontana dagli eventi per inquadrarli nel giusto contesto e allo stesso tempo troppo vicina per consentirne una interpretazione scevra dai condizionamenti del contingente, potrebbe essere ingiustamente tramandata come esempio di empietà e turpitudine. E questo sarebbe un’ingiustizia e un male più grande dei peccati in cui i protagonisti di questa storia sono inciampati per loro sventura o nei quali si sono gettati a capofitto con consapevolezza e colpevole determinazione.

XXIV Dicembre MXVI a. D.

I CAPITOLO

(Di come Gusberto scelse la moglie)

Il fumo di decine di lampade a olio e candele satura l’ambiente. L’odore del sego bruciato striscia sotto la porta dello studio e pervade la casa. Le finestre dello studio sono eternamente coperte di pesanti tendaggi ormai impregnati di quella puzza. Padre Gusberto è terreo come se avesse visto il Demonio in persona. Il riflesso delle fiammelle lo fa sembrare una maschera tragica.

<Mi hanno riferito che il popolo sta preparando ancora una volta il fuoco pagano. Sono a centinaia a lavorarci, gli stessi che hanno l’ardire di professarsi buoni cristiani e la domenica si presentano puntuali in chiesa. Stanno accatastando fascine su fascìne per ingrossare le pire, là, fuori dalle mura. Sprecano il tempo e le forze che l’Altissimo ha concesso loro. E anche la legna che Egli ha voluto concederci per scaldarci e per cuocere il cibo. Quegli invasati li usano per onorare gli idoli pagani e offendere il Vero Dio. È una fortuna per l’intera città che io abbia finalmente convinto il Vescovo a vietare l’allestimento dei falò almeno nella piazza. Questi maledetti ci porteranno alla rovina, consegneranno se stessi e tutti noi nelle mani del Demonio>. Padre Gusberto non parla con la moglie che pure è lì, accanto a lui, ma con se stesso. Snocciola anatemi come se fossero una litania, come se ogni parola fosse destinata a mettere un mattone sul muro che sta idealmente costruendo tra se stesso e il Maligno. E nel frattempo si fa velocemente il segno della croce tre volte e poi altre tre e tre volte ancora. Subito dopo comincia ad agitare le mani davanti alla faccia come se così facendo potesse allontanare da sé l’idea dell’inferno, fatto di roghi, di un magma bestiale di peccatori che gridano per le atroci torture, di odore di marcio e paura. Fatto, soprattutto, dell’assenza della Luce, la punizione che teme di più. Il prete ne è certo: l’avvento del Demonio è una minaccia reale e per giunta incombente e ad aprire la strada a Lucifero in persona, Principe delle Tenebre, saranno proprio quei traditori infedeli che si ostinano a omaggiare le loro false divinità con le fiamme, che sono le porte degli inferi. Gismunda non capisce perché il marito si preoccupi tanto. Il falò del primo maggio è una tradizione. Si faceva quando lei era bambina così come quando lo era sua madre. Non aveva mai portato con sé né disgrazie né flagelli. La moglie del prete ricorda bene che quando era piccola amava ballare intorno al fuoco e divorare le frittelle di formaggio cotte nell’olio bollente proprio in quei giorni di allegria. Quando era diventata un po’ più grande aveva cominciato a scambiare timidi sguardi coi giovani che ballavano a torso nudo attorno al palo, al centro della piazza. All’epoca sognava di sposare Rachis, che era grande e forte e saltava più in alto degli altri, segno che la fortuna sarebbe stata con lui per tutto l’anno. E invece il padre Consalvo l’aveva data in moglie a Gusberto, che si preparava a diventare prete. A Gismunda non avevano chiesto se volesse condividere la vita intera con quel ragazzetto più giovane di lei di un anno, magro e olivastro, un po’ curvo, con le dita sottili e nervose, i tratti del volto spigolosi, il naso affilato, le orbite livide, i capelli dritti come spaghi ed eternamente unti. Il padre della ragazza non voleva dividere le sue proprietà e desiderava lasciare tutto a Martino, l’unico figlio maschio che la moglie fosse stata capace di dargli. Mentre nel resto del mondo l’eredità spetta al primogenito di sesso maschile, a Genova è abitudine distribuire i beni del defunto tra la moglie, se è ancora in vita, e tutti i figli della coppia. Consalvo, invece, voleva che alla sua morte toccasse tutto a Martino, che pure lo detestava più delle sorelle, anche se non aveva ancora il coraggio di prendere le loro parti e di difenderle dal padre. Era una fortuna, pensava il mercante di pece, che tre delle sei figlie che quella moglie incapace gli aveva sfornato fossero morte ancora bambine. Doveva trovare il modo per togliere la quota di eredità alle altre. Così quando Carlo, padre di Gusberto, si era presentato per chiedere in moglie Gismunda a nome del figlio e soprattutto quando questi aveva accettato che la ragazza <rinunciasse spontaneamente> all’eredità, non ci aveva pensato su due volte e aveva accettato l’offerta. La giovane non è particolarmente bella, ma il suo viso è sempre illuminato dal sorriso. I suoi occhi sono appena due fessure, tuttavia sono luminosi come quelli di nessun’altra. Gusberto, però, non l’ha scelta per questo, ma perché è muta dalla nascita. <La ragazza non è sorda e quindi è in grado di obbedire> aveva pensato quando l’aveva individuata come sua consorte. Sì, sarebbe stata la moglie ideale perché non può criticare l’operato del marito, né può annoiarlo con futili discorsi da donne o rimproverarlo, oppure lamentarsi del suo comportamento con le amiche o la famiglia. Il futuro prete aveva programmato la sua vita con pignoleria: il sacerdozio, che era il primo passo verso il potere e la moglie muta perché, se proprio doveva avere una moglie, non gli desse guai e noie. Non gli importava che fosse particolarmente bella. A dir la verità prima di fidanzarsi non l’aveva mai vista né si era chiesto che aspetto avesse. Non importava. L’unica cosa che contava veramente era conquistare il Regno dei Cieli. Ovviamente passando per la più alta carica del Vescovado.

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Carlo, il padre di Gusberto, era arrivato a Genova da Vadum nel 916, proprio l’anno della nascita dell’unico figlio. Aveva subito preso servizio alle dipendenze del nuovo vescovo Ramperto al quale il priore del convento del suo paese lo aveva raccomandato come uomo retto e onesto. Con quelle credenziali era stato subito nominato major e aveva cominciato ad amministrare i terreni della Chiesa. A quel tempo non aveva proprietà personali, ma la gestione delle vigne e delle campagne del vescovo gli aveva consentito di vivere dignitosamente e di mantenere il bambino, la cui madre era morta pochi mesi dopo il parto. Gusberto era cresciuto a casa del vescovo, dato a balia a una serva che aveva una creatura della sua stessa età. A Ramperto, che di figli non ne aveva mai avuti, piaceva quel piccino così silenzioso, per nulla monello, che preferiva stare ad ascoltare i discorsi degli adulti piuttosto che dedicarsi ai rumorosi giochi dei suoi coetanei. Gli aveva insegnato personalmente a leggere e a scrivere in latino e quando si era accorto che Gusberto imparava in fretta gli aveva fatto dono della possibilità di accedere alla biblioteca, dove il giovinetto amava appartarsi a leggere e rileggere Sant’Agostino. Carlo era riconoscente al suo vescovo, tuttavia pensava che il futuro del figlio non fosse nei libri, ma nell’aratro. Ramperto non era più giovanissimo e quando sarebbe morto, il vescovo che lo avrebbe sostituito avrebbe portato con sé i propri uomini di fiducia liberandosi di quelli del suo predecessore. Allora lui e il figlio si sarebbero ritirati nel manso della Valpolcevera che gli era stato concesso dallo stesso Ramperto come parte di ricompensa per il suo lavoro. Lì, nelle terre sulla sponda del fiume e sulla collina scaldate dal sole per gran parte della giornata, si potevano piantare la vite e gli ortaggi e allevare tutti gli animali necessari al sostentamento suo, del figlio e, sperava il major, della nuora e dei nipotini che prima o poi sarebbero arrivati. Per adesso i terreni venivano coltivati per metà da una famiglia di contadini della zona a cui Carlo, troppo occupato a gestire le terre del vescovo, li aveva affidati. Il major chiedeva ai contadini un quarto del raccolto, tre uova la settimana, tre polli e due conigli l’anno. La stesse cose toccavano al vescovo in tributo. Al momento opportuno, pensava Carlo, sia lui sia Gusberto avrebbero dovuto sostentarsi facendo loro stessi i contadini. Invece il figlio non sapeva ancora usare l’aratro e nemmeno ne voleva sapere di imparare. Tuttavia Carlo non aveva il coraggio di opporsi a Ramperto, che amava tenere il ragazzo vicino a sé. La sera, quando il major tornava a casa stanco, quasi sempre il figlio era già a letto e la mattina, quando si alzava che non era ancora scoccata la prima ora, Gusberto dormiva ancora. Ogni domenica, a pranzo, ripeteva al ragazzo che ormai non era più un bambino e che dalla settimana successiva l’avrebbe portato con sé perché doveva imparare il mestiere del contadino. <Devi cominciare ad aiutarmi nel lavoro di controllo dei coloni e della riscossione dei tributi> diceva Carlo. Ma ogni volta Gusberto tagliava corto dicendo che stava per cominciare l’Avvento o la Quaresima e per questo doveva fare questo o quel lavoretto per Ramperto o che il vescovo gli aveva chiesto di pulire la biblioteca. Fino a quando, una domenica, mentre il padre addentava di gusto una bella coscia di pollo pensando beato che, dopo sei giorni di minestre e frittate di erbe, finalmente era venuto il momento del pranzo della festa, Gusberto, che aveva dodici anni, gli aveva comunicato che sarebbe diventato prete. <Figlio mio, non puoi farti prete. Non siamo ricchi. Non ho i soldi per farti studiare. È meglio che tu capisca che la tua vita è nei campi> aveva detto Carlo. <Mai mi sono aspettato di avere aiuto da te – aveva risposto con disprezzo il ragazzo -. Non ti chiederò di rinunciare ai tuoi diritti sui terreni o alla casa in Valpolcevera per pagare la scuola monastica perché tanto so che non lo faresti. La verità è che ti dà fastidio che io studi e vuoi che rimanga povero e contadino come te. Sarà il vescovo Ramperto a pagare i miei studi. Così lui ha deciso e non credo che tu abbia nè il diritto nè il coraggio di contrariarlo>. Quindi Gusberto si era alzato dalla tavola lasciando tutto il cibo nel piatto. Il mattino dopo Carlo, senza aver chiuso occhio per tutta la notte, era uscito da casa molto presto per andare al lavoro perché per lui il dovere non ammetteva eccezioni. Il figlio, non appena aveva sentito la porta di casa chiudersi, era sceso dal letto, si era coperto come meglio poteva coi miseri panni a sua disposizione ed era andato nelle stalle del vescovado, dove lo attendeva il carro che, scortato da cinque uomini armati lo avrebbe portato all’abbazia di San Colombano a Bobbio. Il carro era carico di bauli che contenevano abiti, libri e suppellettili per arredare la cella di Gusberto nella scuola monastica. C’era anche un mantello foderato di pelliccia nel quale il ragazzo si era avvolto prima di partire senza salutare il padre e senza mai voltarsi indietro, ben felice di non doversi accomiatare. Carlo, quella mattina, si era avviato verso la vallata del Bisagno col groppo in gola, mettendo un piede davanti all’altro, senza mai alzare la testa, proprio come un asino da soma. Portava il peso del dolore per quello che il figlio gli aveva detto, ma mai aveva pensato di fermarsi a casa per discutere con Gusberto. Avrebbe capito di avere sbagliato solo la sera, una volta tornato a casa, trovando il fuoco spento. Aveva subito capito che era inutile cercare il figlio. Il ragazzo non lo aveva nemmeno salutato né gli aveva detto dove andava. La prima reazione era stata di rabbia e per questo l’uomo aveva afferrato il piatto della cena di Gusberto che era rimasto sul tavolo dalla sera prima e lo aveva lanciato contro il muro. Poi aveva prevalso il dolore e a Carlo non era rimasto che accasciarsi sulla sedia. Aveva pianto a lungo. Poi aveva pensato di chiedere all’attendente del vescovo dove era andato suo figlio. Ma anche se fosse riuscito a saperlo sarebbe stato inutile. Non poteva opporsi alla volontà di Ramperto, inoltre non aveva né il tempo né i mezzi per affrontare un viaggio che, lo sapeva, sarebbe stato inutile perché non aveva argomenti per convincere Gusberto. Avrebbe voluto scrivergli una lettera e inviargliela tramite il vescovo, ma sapeva a malapena scrivere i numeri e il nome delle cose che raccoglieva per il vescovado: frutta, verdura, tavole di legno, uova, polli, conigli, le pezze di stoffa tessute dalle donne dei quali doveva fare il rendiconto mensile. Così si era limitato a informarsi ogni settimana sulla salute del ragazzo presso Alfonso, il segretario di Ramperto, al quale consegnava i tributi e la parte di raccolto che spettava alla Cattedrale. Aveva atteso il ritorno del figlio svegliandosi ogni giorno con la speranza di poterlo abbracciare di nuovo e addormentandosi ogni sera col doloroso pensiero che un’altra giornata era passata senza che avesse potuto riabbracciare il suo ragazzo. Gusberto era tornato solo tre anni dopo. Non era cresciuto molto. Anzi, sembrava ancora più minuto e più curvo di quando era partito. I suoi abiti e i suoi modi non erano più quelli di un ragazzino, anche se i vestiti non erano ancora quelli di un prete. Si era stabilito nella casa del vescovo senza nemmeno passare a salutare il padre. Carlo aveva saputo che Gusberto era a Genova perché glielo avevano detto i servi della casa di Ramperto. Gli avevano anche raccontato che il ragazzo trattava tutti come se fosse diventato il loro padrone e che persino la balia che gli aveva dato il latte veniva insolentita continuamente. Carlo, la domenica, era andato a messa in cattedrale come ogni settimana. Ma quella volta era uscito di casa con la speranza di incontrare il figlio e allo stesso tempo la paura che questi non volesse più avere a che fare con lui. Lo aveva scorto seduto in prima fila, elegante e austero. Aveva sperato che, dopo la messa, il giovane comparisse sulla soglia di casa. Lo aveva aspettato tutto il giorno seduto su una sedia, a fissare la porta. Era passata, così, la sesta ora e poi era venuta anche la decima senza che Gusberto si facesse vivo. Eppure l’abitazione di Carlo era proprio dietro la cattedrale di San Siro, nel Borgo fuori le mura, in una delle piccole casette a due piani, uno di pietra e l’altro di legno, attaccate l’una all’altra dove abitavano tutti gli uomini che lavoravano per il vescovo: il sarto, il calzolaio, il fabbro che aveva lì anche la sua officina, l’orafo che realizzava gli ostensori e i gioielli del vescovo, l’argentiere che costruiva i reliquiari. Era passata una settimana ed era venuto il giorno della consegna dell’uva raccolta nelle vigne poco distanti. Carlo si era presentato all’ora seconda col carro carico davanti alla casa del vescovo e, insieme all’attendente di Ramperto, inaspettatamente, era arrivato anche Gusberto che si stringeva nel suo mantello foderato di pelliccia per proteggersi dai primi freddi del mattino d’autunno. Stava tremando e Carlo aveva immaginato che fosse per l’emozione di rivederlo, ma presto si era accorto che era solo per via dell’umidità. All’uomo erano salite le lacrime agli occhi. Si era fatto avanti per abbracciare il figlio. Il giovane, invece, aveva fatto un passo indietro e lo aveva liquidato con un freddo saluto, e, senza mai interrompersi o permettere replica alcuna, gli aveva detto: <È desiderio del vescovo che andiate a casa di Consalvo il mercante di pece, sul colle, e che gli chiediate in sposa per me la settima figlia, quella muta. Se tenta di offrirvi la sesta, che non è ancora sposata, ditegli che voglio la settima e che sono disposto a rinunciare a dote ed eredità>. Poi aveva continuato, come se stesse recitando a memoria un sermone: <Il matrimonio si dovrà celebrare il giorno di San Filippo martire, vescovo di Eraclea, che fu bruciato vivo col suo diacono dopo la prigionia e la fustigazione durante la persecuzione di Diocleziano essendosi esso rifiutato di chiudere la chiesa e di consegnare tutti i libri>. Poi, Gusberto era andato via senza salutare, girando le spalle al padre e scivolando silenziosamente coi suoi calzari di stoffa sulle pietre che pavimentavano l’accesso al convento, vicino alla cattedrale, dove vivevano il vescovo e il suo seguito. Carlo era rimasto lì, con la bocca aperta a rivelare i pochi denti che gli erano rimasti, senza dire una parola, senza nemmeno riuscire a chiedere a suo figlio che giorno era esattamente quello di San Filippo e, cioè, tra quante lune si sarebbe dovuto celebrare il matrimonio. Il mezzadro aveva impiegato qualche secondo a scuotersi dall’emozione di aver rivisto il figlio, dallo stupore per quello che gli aveva ordinato di fare. E adesso in lui prevaleva l’amarezza che, dopo i primi momenti, aveva lasciato posto alla rabbia sopita nei tre anni precedenti, lasciando, infine, di nuovo il passo alla più profonda tristezza. L’attendente di Ramperto si era avvicinato. Era un uomo molto alto, con le mascelle squadrate, il naso aquilino e gli occhi chiari che tradivano l’origine nordica. Aveva posato le sue mani grandi e lisce su quelle tozze, arrossate e ruvide del mezzadro. Poi gli aveva circondato le spalle con un braccio e a quel punto Carlo aveva alzato il volto verso il suo. Alfonso si era chinato e a bassa voce aveva detto al major di non preoccuparsi, che il vescovo sapeva quello che faceva e che tutto era stato deciso per il bene del ragazzo. Ramperto aveva destinato al giovane futuro prete la chiesa di Santa Maria delle Vigne, costruita “extra muros Janue apud rivum Suxilie ubi erant vinee” (fuori dalle mura di Genova vicino alle rive del torrente Suxilie dove erano le vigne), fatta costruire dal vescovo Sabbatino e, dopo che questi era morto, inaugurata proprio da Ramperto nel 916, proprio l’anno di nascita del suo pupillo. Non era una parrocchia e, quindi, il giovane non avrebbe avuto troppi fedeli dei quali preoccuparsi. Questo gli avrebbe lasciato il tempo per studiare, come lui desiderava. Con la chiesa, “Prima Aedes Januae Deiparae dicata”, la prima della città dedicata alla Madonna, Gusberto avrebbe ricevuto tutte le proprietà, in primo luogo le rinomate vigne. Ramperto avrebbe anche rinunciato ai tributi dovuti, ma a condizione che Gusberto si sposasse prima di prendere la strada del sacerdozio perché potesse avere quei figli che lui, ordinato quando aveva appena dieci anni, non aveva potuto avere. Il giovane aveva potuto scegliere la sua sposa tra le dieci proposte dal vescovo che aveva sguinzagliato per l’occasione i suoi servi e le sue spie per sapere tutto delle candidate. Ramperto aveva escluso le figlie dei mercanti più ricchi, dei proprietari delle navi, dei proprietari di vasti appezzamenti di terreno che non le avrebbero mai date in sposa a un giovane di umili origini. Aveva anche escluso le più povere, le contadine. Erano rimaste, appunto, dieci ragazze, tutte tra i 12 e i 17 anni, tra le quali la figlia del commerciante di cera e candele e la figlia dell’oste della ripa. Ci sarebbe stata anche la figlia del commerciante di pece, che aveva una sorella muta più piccola di lei di un anno. Ma la gente diceva che non fosse più vergine e che qualche anno prima avesse addirittura abortito. Gusberto aveva tentato di opporsi alla volontà di Ramperto. <All’Abbazia di Bobbio ho studiato che i sacerdoti dovrebbero vivere in castità, in case diverse dalle mogli sposate prima del giuramento a Dio> aveva detto, mostrando tutto il suo stupore per il fatto che il Vescovo non conoscesse questa regola. E Ramperto si era spazientito. Non sopportava che il ragazzo gli parlasse con quell’aria da maestrino che il giovane usava con la servitù da quando era tornato da Bobbio. Aggrottando le sopracciglia e alzando il tono della voce aveva risposto: <Quello che la Chiesa vuole, ragazzo mio, in questa città sono io a deciderlo. E io decido che tu debba avere dei figli che io possa tenere sulle mie ginocchia come se fossero miei nipoti. Questo perché tu non possa pentirti da vecchio di essere stato un giovane senza amore e un adulto senza famiglia>. Era evidente che non avrebbe ammesso repliche. Il giovane lo aveva capito e quindi aveva velocemente valutato quale fosse il minore dei mali. Perché certamente desiderava essere fedele a quanto gli austeri monaci gli avevano insegnato, ma non fino al punto da mettere in gioco la scalata al potere che aveva deciso di incominciare ormai tre anni prima. <Allora voglio la sorella muta> aveva detto addolcendo la voce, come per ricordare a Ramperto di essere il suo pupillo. Proprio per quella menomazione, il Vescovo non aveva preso in considerazione la ragazza. Se era muta, un motivo ci doveva pur essere. E se un motivo c’era, risiedeva con certezza nella Volontà di Dio di punire la sua famiglia per qualche orribile peccato commesso. Ma Gusberto non aveva inteso ragioni: <Padre mio – aveva spiegato al Vescovo -, se siete Voi a desiderarlo, rinuncio volentieri al valore della castità che i monaci mi hanno raccomandato e che a me è così cara, ma se volete evitarmi un imbarazzo, consentitemi di sposare una donna muta, incapace di pettegolare con le vicine e di conversare con loro, come tutte le donne fanno, dei particolari relativi dell’adempimento dei doveri coniugali. Siete Voi e non io a volere un matrimonio prolifico, mio Signore. E io per amor vostro farò tutto ciò che mi chiedete. Permettetemi, però, di tutelarmi da quello che una moglie col dono della parola potrebbe riferire ad orecchie indiscrete>. In realtà Gusberto aveva deciso che mai avrebbe toccato una donna, “essere impuro”. Per giunta i figli avrebbero potuto intralciare il suo cammino verso fama e ricchezza. Per questo, se proprio era obbligatorio che prendesse moglie, questa non doveva poter raccontare in giro che il loro era un matrimonio bianco. In fondo suo padre aveva ragione: Ramperto era già anziano e lui doveva sfruttare al massimo e senza perder tempo le opportunità che l’affetto del Vescovo gli offriva. Non appena il vecchio sarebbe morto, lui avrebbe buttato la moglie fuori di casa e avrebbe seguito la sua natura, che era quella di provare orrore per ogni donna.
Carlo si era fatto forza e, anche se si vergognava della propria ignoranza, era stato costretto a chiedere ad Alfonso quando cadesse il giorno di San Filippo Martire. Non avrebbe mai voluto deludere il figlio. L’attendente del vescovo gli aveva spiegato che era il 22 ottobre, ma il major aveva fatto una faccia sconsolata. Era chiaro che non aveva capito un’altra volta. Allora Alfonso aveva precisato: <Due giorni dopo il prossimo primo quarto di luna, cioè la prossima mezza luna crescente, come oggi>. Poi aveva sorriso e a guardarlo si capiva che provava compassione per quell’uomo ignorante ma onesto, semplice ma leale, che in tanti anni non aveva rubato al vescovo un uovo, nonostante la grande quantità di cose che gli passava per le mani. Invece Gusberto proprio non gli piaceva. Non lo sopportava nemmeno quando era piccolo e di questo si era sempre fatto una colpa. All’epoca questo fardello gli pesava sull’anima, anche perché non poteva dirlo al suo confessore, il vescovo, che amava così tanto quel moccioso taciturno, l’unico bambino che avesse mai visto che non dimostrasse almeno qualche volta un po’ d’allegria. Ormai, però, Alfonso non provava nemmeno più rimorso per quel sentimento che da fastidio era diventato vero e proprio odio e cresceva ogni giorno di più.

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Il padre di Gusberto era andato a cercare il mercante di pece nella sua casa bottega, appena fuori le mura, sul colle. Aveva superato la porta “Superana” senza entrare nella civitas e aveva continuato a costeggiare le mura fino a quando non aveva incontrato una ragazza che risaliva il viottolo sulla collina che dall’approdo secondario della città, nell’insenatura poco distante, portava proprio al colle. La giovane aveva gli occhi piccoli, ma Carlo non poté non notare che erano vivissimi. Aveva i fianchi larghi e un sorriso che, anche quello, splendeva. L’uomo le aveva chiesto dove fosse la casa di Consalvo e lei si era sistemata la cesta sulla testa in modo da poterla tenere in equilibrio con una sola mano, aveva allungato l’altra, aveva preso il polso dell’uomo e aveva cominciato a guidarlo. Così, senza dire una parola, lo aveva condotto fino ad una delle case addossate alle mura. Era proprio il deposito della pece. Le ragazza lo aveva lasciato lì facendogli segno di aspettare. Era salita su per una scala di legno dalla quale subito dopo era sceso un uomo tozzo e sporco, pieno di peli fin sulle orecchie, vestito di una tunica unta e strappata. I suoi passi pesanti pesanti facevano tremare i gradini. <Cosa vuoi da me, major> aveva chiesto in malo modo il mercante. Carlo pur colto di sorpresa dalla risposta scortese, non si era perso d’animo: <Sono qui a chiedere in moglie per mio figlio una delle tue figlie> aveva detto. <Se vai in cerca di dote, questo non è il posto giusto> aveva ribattuto Consalvo. <Mio figlio dice che tua figlia può rinunciare alla dote, se vuole> aveva tagliato corto il padre di Gusberto. Quella era musica per le orecchie del mercante che, senza nemmeno pensarci un attimo aveva risposto <Che se la prenda> e si era messo a gridare <Anna, scendi!!!>. Carlo non aveva fatto in tempo a chiarire che lui stava parlando della sorella muta. Anna, che stava ascoltando tutto dal piano superiore, si era affacciata dalle scale, ma sul suo volto era stampata un’espressione tutt’altro che entusiasta. Era una bella ragazza, coi capelli chiari e più magra rispetto alla sorella. Aveva 17 anni. Nessuno la voleva in moglie perchè tutti sapevano che qualche tempo prima era rimasta incinta senza mai essersi sposata. Nè lei aveva mai cercato un marito. Dopo che il padre del bambino aveva detto di volerla sposare, ma di non aver intenzione di rinunciare alla dote che gli sarebbe servita per mettere su una bottega da ceramista grazie alla quale contava di mantenere la nuova famiglia, il padre aveva caricato di peso Anna sul carro tirato da un bove e l’aveva trascinata in lacrime fino alla Valbisagno, dove viveva la vecchia fattucchiera che l’avrebbe fatta abortire. La sbobba di prezzemolo che la megera le aveva fatto bere aveva provocato ad Anna emorragie che sembravano inarrestabili. Inoltre la ragazza non smetteva più di vomitare anche se nello stomaco non aveva più nulla. Quando Consalvo era fuori per consegnare un carico di pece, la moglie Maria, preoccupata, aveva chiamato una sua conoscente che sapeva curare con le erbe. La donna aveva consigliato cataplasmi di crusca, acqua e senape e un decotto di assenzio con miele, ma in cuor suo disperava che la ragazza potesse salvarsi. Appena Consalvo aveva saputo che la moglie aveva chiesto aiuto a un’estranea l’aveva quasi ammazzata picchiandola con un bastone. Aveva sperato che il veleno, col figlio e col sangue che Anna continuava a perdere, portasse via anche la ragazza che invece, miracolosamente, si era salvata. Come il padre aveva previsto, la curatrice amica della moglie non aveva saputo tenere il segreto. La voce di quella gravidanza impura si era diffusa in fretta e in molti avevano tolto il saluto all’intera famiglia, oltre a smettere di comprare presso la bottega. Anche il monastero di San Siro, che faceva capo alla Cattedrale, non acquistava più la pece bruzia per impermeabilizzare le botti. Nessuno aveva più chiesto in moglie Anna, anche perché ormai tutti sapevano che il padre non era disposto a concederle dote ed eredità. Tre delle sue cinque sorelle di Anna e Gismunda erano morte ancora giovani. Una, invece, si era sposata e, siccome il marito l’amava moltissimo e aveva già un’avviata attività di maniscalco, aveva accettato di buon grado le condizioni del futuro suocero pur di potare via la ragazza dall’inferno in cui viveva. Gismunda era muta e, immaginando che non si sarebbe mai maritata, Consalvo l’aveva già costretta a sottoscrivere un atto in cui, davanti a un notaio, rinunciava a tutto in cambio dell’impegno del fratello a mantenerla. Siccome non sapeva leggere e scrivere, come tutta la sua famiglia, era bastato un segno d’assenso col capo al momento del perfezionamento dell’atto. La croce tracciata dalla giovane sul foglio era stata convalidata in fretta. Per Anna doveva ancora decidere il da farsi, sperando di risparmiare i soldi del notaio. La ragazza era molto bella e qualcuno doveva pur volerla prima che diventasse troppo vecchia. Ora che finalmente il pretendente si era fatto avanti, sperava di ottenere moneta sonante. Senza mezzi termini, chiese soldi a Carlo. Ora, il major, imbarazzato, non sapeva come dire ad Anna e a suo padre che il figlio voleva sposare Gismunda e non la sorella maggiore. Gusberto l’aveva avvertito che il padre avrebbe tentato di imporre la figlia più grande ma lui adesso non sapeva cosa inventare per togliersi d’impaccio. Tuttavia gli facevano più paura il figlio e il vescovo di quanto gliene facesse Consalvo. Così si era schiarito la voce e aveva detto tutto d’un fiato: <Mio figlio vuole sposare Gismunda alla prossima mezza luna crescente e manda a dire che qualsiasi cosa diciate la sua offerta vale solo per lei e per nessun’altra> e poi, a mezza voce, aveva aggiunto <Mi spiace davvero, Anna è una bella ragazza…>. Stava per aggiungere che d’altro canto suo figlio non conosceva né l’una né l’altra e certo non cercava moglie per la sua bellezza, ma si era morsicato la lingua perché non capiva la scelta di Gusberto e quindi non avrebbe saputo come spiegarla. Consalvo aveva risposto secco: <E allora non se ne fa niente>. In fin dei conti, pensò, la questione dell’eredità della muta era già stata risolta. Era vero che dandola in moglie non avrebbe più dovuto mantenerla, ma era vero anche che gli sarebbero mancate due braccia e che si sarebbe dovuto fare carico lui stesso del lavoro che la figlia faceva al magazzino, quello più pesante. <Sappi che il “no” che stai dicendo lo dici al vescovo – aveva rilanciato Carlo, facendo un disperato tentativo di recuperare la situazione -. Mio figlio è sotto la sua protezione e sarà lui a sposarlo e ad ordinarlo prete, subito dopo il matrimonio>. All’energumeno spuntò un sorriso che pareva un ghigno: gli erano venuti in mente tutti i vantaggi che poteva ottenere da quella unione. Aveva pensato, quindi di giocare al rialzo: <E allora voglio parlare direttamente col vescovo> aveva detto. A Carlo non era restato che tornare sui propri passi, presentarsi al monastero di San Siro, bussare tremante al portone principale e chiedere dell’attendente di Ramperto. Alfonso non lo aveva fatto aspettare molto e in capo a qualche minuto lo aveva raggiunto nel chiostro. Mentre il major gli riferiva l’accaduto, era passato di lì Gusberto e Carlo aveva dovuto parlare davanti a lui. Il figlio avrebbe voluto liberarsi dell’attendente del vescovo, ma sapeva che Ramperto non avrebbe apprezzato. Alfonso era il suo braccio destro da tanti anni e, nonostante Gusberto avesse provato in ogni modo a metterlo in cattiva luce, non c’era mai riuscito. Per quanto lo detestasse, quella volta, aveva dovuto ammettere che la sua idea era la migliore: il vescovo avrebbe pagato l’ammissione di Anna nel convento Benedettino di San Salvatore a Brescia, recentemente dedicato a Santa Giulia e lei sarebbe così sparita dal mondo terreno e dalla linea ereditaria del mercante. Le spie di Alfonso avevano indagato sulla famiglia della ragazza e avevano parlato col notaio che aveva ratificato la rinuncia all’eredità da parte della muta. Il prete sapeva che il mercante di pece si sarebbe opposto tentando di piazzare la prima figlia non sposata e aveva già preparato le contromisure del caso.
Carlo era tornato da Consalvo portando la proposta di Alfonso e il mercante aveva rilanciato chiedendo di essere riammesso come fornitore del convento e delle parrocchie. L’“affare” era stato concluso secondo i termini imposti dal padre della futura sposa e si era fissata la data del fidanzamento nel giorno dell’ultimo quarto di luna, cioè nella notte della mezzaluna calante. Era il giorno di Santa Comasia, che oggi è considerata la patrona della pioggia. Era forse per questo che pioveva a dirotto quando Gismunda, il padre, la madre, il fratello, la sorella sposata col marito e i loro figli, erano scesi lungo le mura ed erano entrati nella città passando dalla porta Superana per poi percorrere a piedi il Canneto e quindi svoltare a destra e uscire dalla porta di San Pietro e, infine, attraversare i campi per arrivare al Borgo e alla cattedrale dove tutti erano arrivati bagnati fradici e sporchi di fango. Le campane della chiesa suonavano l’ora prima. Gismunda, intirizzita, si stringeva in un vecchio mantello rattoppato già appartenuto al padre. La frangia le gocciolava sul volto mentre la lunga treccia era nascosta sotto il cappuccio. Tremava di freddo e di paura. L’intero gruppo puzzava come una mandria di animali bagnati. A Gusberto quel fetore rivoltava lo stomaco. Per questo per tutta la cerimonia si era tenuto a distanza, quasi non fosse lui il promesso sposo. Mentre Ramperto leggeva il giuramento dei fidanzati, il giovane tamburellava con le dita secche sulla spalliera dell’inginocchiatoio. Quando era venuto il suo turno aveva detto un sì secco e sbrigativo, come quello di un militare che risponde a un ordine. E quando Ramperto aveva letto la frase che prometteva Gismunda al suo pupillo, lei aveva assentito con la testa e per tutti fu abbastanza per sciogliere quell’assemblea poco affollata alla quale avevano partecipato solo Carlo, Alfonso, la famiglia di Gismunda e un paio di preti come testimoni. L’ora e il giorno non erano certo quelli adatti per una grande festa. Era pesto e tutti i contadini, stavano raggiungendo i campi sotto la pioggia. Le botteghe di mercanti e artigiani non erano ancora aperte. Gusberto aveva detto che la cerimonia doveva essere semplice, sobria, senza quelle concessioni alla festa pagana che erano in uso sia tra i ricchi, i quali organizzavano danze e banchetti, sia tra i poveri che si limitavano a qualche bicchiere di vino bevuto insieme e, se la stagione lo consentiva, si allargava a una intera giornata di balli popolari nella piazzetta più vicina o in un campo fuori dalle mura dove ciascuno portava qualcosa da mangiare o da bere. La cerimonia non si era svolta in cattedrale, ma nella cappella del monastero dove il fuoco delle fiaccole non bastava a scaldare le ossa di Gismunda che era rimasta fasciata nel suo mantello maleodorante. Qualche volta aveva girato il volto per sbirciare il suo futuro marito. Lui, invece, non aveva staccato gli occhi dal vescovo. Nemmeno una volta si era girato verso di lei. La futura sposa si era chiesta perché mai Gusberto l’avesse scelta. Lei non l’aveva mai visto, nemmeno le poche volte che era stata a messa in cattedrale, ed era probabile che nemmeno lui l’avesse mai vista. La sua famiglia non era ricca e quindi non si trattava di un matrimonio di convenienza. Gismunda non sapeva opporsi all’ordine del padre, ma avrebbe voluto gridare che no, quell’uomo non lo voleva come marito e che, invece, voleva il forte Rachis, col quale, di nascosto dal padre, aveva scambiato qualche carezza e persino un timido bacio. Gusberto era più basso di lei, magro e curvo e inoltre aveva uno sguardo gelido come la galaverna che d’inverno spezza i rami degli alberi. Di colpo si era sentita spezzata proprio come uno di quei rami. Capiva che la sua giovinezza finiva lì, in quel preciso momento. Che non ci sarebbe stato più spazio per i giochi con i coetanei e nemmeno per i pomeriggi d’estate passati a raccogliere fiori con le sorelle. Non ci sarebbe più stato posto per Rachis, nemmeno nei suoi sogni di ragazza onesta. Di colpo la luce che aveva sempre avuto negli occhi si era spenta come una candela sulla quale si accanisce uno spiffero freddo che si fa strada nel drappo di stoffa che chiude la finestra, lo alza e fa tremare la fiammella prima di ucciderla definitivamente. Era assorta in quei pensieri quando il padre l’aveva scrollata per le spalle e le aveva detto che era l’ora di tornare a casa a lavorare. Gusberto era già sparito dalla cappella. A Gismunda era venuto in mente solo in quel momento che alla cerimonia non aveva partecipato Anna. Pensandoci bene non l’aveva vista in casa quando si era alzata. E dire che lei, il padre, la madre, il fratello e la sorella dormivano tutti nello stesso giaciglio nell’angolo della casa più caldo. Forse stava male. Forse era andata a passare la notte dalla zia che entrambe amavano tanto. L’anziana donna era cagionevole di salute e camminava a fatica. Per questo qualche volta le sorelle dormivano con lei per tenerle compagnia e assisterla. Gismunda aveva pensato che era davvero strano che la sorella non l’avesse accompagnata al fidanzamento perché erano molto legate e sapevano tutto l’una dell’altra. Per questo aveva accelerato il passo precedendo il padre e la madre che arrancavano sulla strada per risalire al colle, come la sorella e il cognato che avevano preso in braccio i due figli perché i piccini non riuscivano a camminare nel fango della strada del Canneto dove l’acqua caduta dal cielo scorreva ormai come nel letto di un fiume. Nonostante fosse scoccata l’ora terza, le strade erano deserte sotto la pioggia che non aveva mai smesso di cadere. I vestiti che Gismunda aveva addosso pesavano come fardelli carichi esattamente nello stesso modo in cui sul suo cuore pesava il fatto di essere stata scelta per il matrimonio al posto della sorella. Forse Anna si era offesa ed era arrabbiata con lei. <Avrei dovuto oppormi – aveva pensato la ragazza -, mio padre mi avrebbe picchiata fino ad ammazzarmi, ma sarebbe stato meglio che perdere l’affetto di mia sorella. Dirò ad Anna che non mi importa di sposarmi e che nemmeno lei deve sposare quel ragazzo perché ha negli occhi la cattiveria. Domani Anna partirà per il convento e non la rivedrò più. Per tutta la vita avrò il rimorso di averle fatto del male, anche se non ho deciso io di sposarmi, anche se l’uomo al quale mi sono promessa mi fa paura>. Era arrivata a casa col cuore in gola, ancora più sporca e bagnata di quando aveva raggiunto il convento di San Siro e aveva trovato i pescatori davanti alla soglia. Avevano depositato una rete dalla quale usciva il braccio di una donna. Immediatamente una fitta lancinante le aveva trafitto il cuore. Si era avvicinata correndo prima che qualcuno riuscisse a fermarla e aveva visto ciò che temeva. Nella rete c’era quello che restava di Anna.

©Monica Di Carlo. Tutti i diritti riservati. Vietati la riproduzione anche parziale del testo e qualsiasi uso non autorizzato dall’autore