Orrore (Genova 935)

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IX Capitolo – “Delle trappole incrociate e delle nere profezie”

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ORRORE PRIMO CAPITOLO
II CAPITOLO
III CAPITOLO
IV CAPITOLO
V e VI CAPITOLO
VII CAPITOLO
VIII CAPITOLO
IX CAPITOLO

IX Capitolo
“Delle trappole incrociate e delle nere profezie”

Matteo, inviato da Ramperto, si era inserito bene nel gruppo del prete Michele. Si era avvicinato lentamente, fingendo di cadere nella rete di Rolanda che in cattedrale sceglieva accuratamente i possibili accoliti. Il giovane aveva finto insofferenza per il lassismo del Vescovo, aveva criticato l’operato di Alfonso, aveva elogiato, invece, Gusberto e si era auspicato che egli potesse far rinsavire il padrino. Infine aveva condannato apertamente il sistema delle decime alle prostitute in cambio del silenzio complice della Curia. A quel punto la trappola non poteva che scattare. Rolanda aveva invitato il ragazzo ad andare ai vespri a San Donato. Lì padre Michele aveva voluto fargli qualche domanda di persona prima di “iniziarlo” alle riunioni notturne a casa della “pia donna”. Per questo lo aveva fatto entrare in sacrestia e mentre si spogliava dei paramenti gli aveva detto di accomodarsi su una panca. Padre Michele era un uomo piuttosto anziano, dalle sopracciglia bianche e foltissime e la fronte rugosa perpetuamente accigliata. Anche i capelli erano bianchi e uscivano scomposti e ispidi dal cappuccio. Per qualche secondo era rimasto senza dire una parola, a cogliere un qualsiasi cenno di imbarazzo del ragazzo. E invece questo stava seduto con una gamba accavallata sull’altra, lo sguardo fisso negli occhi del prete e le labbra ad accennare un sorriso. Alla fine fu il sacerdote a non poterne più e chiese a Matteo se fosse pronto ad assoggettarsi alle regole del gruppo, ben più severe di quelle della Cattedrale. <Ad esempio non potrai avvicinarti alla tua fidanzata, se ne hai una> aveva detto Michele. <Non ho fidanzata – aveva risposto il giovane – e ben s’intende che quando deciderò di sposare una donna, la porterò vergine all’altare nè mai mi avvicinerò a una meretrice e a nessuna ragazza, come fino ad ora ho fatto anche senza che foste voi a chiedermelo giacchè non siete voi, mio buon padre, ma l’Altissimo, a impormi la purezza del cuore e del corpo. È anche possibile che io decida di farmi monaco perché già mi è cara la Regola benedettina e da tempo pratico l’ascolto, l’obbedienza, l’umiltà, l’orazione, la povertà, il lavoro, il silenzio, il raccoglimento e la lettura della Sacra Scrittura e dei Salmi>. All’anziano prete la risposta era piaciuta moltissimo. Era felice di aver trovato in Matteo un altro “soldato” per la sia causa, un ottimo adepto. Sarebbe stato davvero un peccato, pensava, se quel ragazzo che tanto aiuto poteva portargli si fosse chiuso in un monastero a zappare la terra. <Dimmi, che ne pensi del collaboratore del Vescovo, Alfonso?> aveva chiesto Michele. <No so se posso permettermi signore…> aveva risposto Matteo, fingendosi dubbioso sull’opportunità di continuare dicendo male di uno degli uomini di maggior potere della città, il secondo dopo lo stesso Ramperto. <Dì pure ciò che hai sulla lingua – aveva risposto il prete – e non temere giacchè io sento che condividerò il tuo giudizio>.
<Ecco, signore – aveva iniziato Matteo, facendo una lunga pausa ad effetto prima di continuare -, io penso che un uomo di Chiesa non può bordare il proprio mantello di pelliccia né può sfoggiare preziosi gioielli>. Il sacerdote non aveva più potuto trattenersi e aveva gridato <E può forse avere un amante prostituta? Può trascurare il suo Ufficio, le celebrazioni, i doveri che il suo ruolo gli impone per trascorrere le proprie giornate nel letto di una baldracca a commettere qualsiasi turpitudine, sodomia compresa? Io dico che questo è un uomo del Demonio, dico che porterà sulla città l’ira del Signore e che per questo bisogna fare in modo che questo nemico di Cristo non possa più nuocere>. Il giovane aveva pensato che quanto Padre Michele aveva detto fosse una menzogna, detta ad arte per gettare ulteriore discredito sul potere del Vescovo attraverso il suo attendente: fango sul pericoloso e potente bastone della guida religiosa e civile della città, ma si era comunque ripromesso di raccontarla a Ramperto anche per vedere che faccia avesse fatto e capire se in tutto quel delirio ci fosse un barlume di verità. Dopo aver ottenuto la convocazione alla preghiera notturna, l’appuntamento era fissato per due ore dopo il calare del sole del giorno successivo, era tornato a casa con la raccomandazione dell’anziano sacerdote di parlare a suo padre e al Vescovo, che erano molto amici sin da bambini, dei terribili peccati di Alfonso. Matteo aveva pensato di avere così una buona scusa per correre così alla cattedrale, da Ramperto, a riferirgli i risultati della propria missione: dell’invito ottenuto per la preghiera notturna e delle maldicenze sul suo attendente. Michele gli aveva anche raccomandato di tenere d’occhio orari e spostamenti di Alfonso. Anche questo avrebbe detto al Vescovo col quale aveva appuntamento a casa di suo padre. Nessuno si sarebbe stupito se il Vescovo fosse andato a fare visita all’amico Adalberto. Lo faceva sempre, almeno due volte la settimana, perché il mercante commerciava a nome della Cattedrale comprando stoffe preziose ed oro e vendendo vino, legna, manufatti degli artigiani alle dipendenze di Ramperto. Nella casa del mercante avrebbero potuto parlare con libertà, senza temere che dietro la porta ci fosse l’orecchio di Gusberto o quello di una delle spie che nel frattempo il giovane prete aveva fatto in modo di procurarsi tra i servi della Curia. Matteo aveva riferito tutto al Vescovo che lo aveva ascoltato senza che dal suo volto trasparisse la benché minima emozione. Nè compiacimento per l’ottimo lavoro svolto dal giovane fino a quel momento nè disapprovazione per quelle che la giovane spia pensava fossero menzogne messe in giro ad arte per screditare Alfonso. Ramperto gli aveva detto di partecipare alla riunione e di tenere le orecchie ben aperte e aveva aggiunto che il giorno seguente la notte di preghiera col gruppo di Michele sarebbe tornato per conoscere nei dettagli come si svolgevano gli incontri. Uscendo di casa e percorrendo a piedi, scortato dalle guardie che lo aspettavano fuori dalla casa dell’amico mercante, la strada che lo separava dalla Cattedrale si era detto che si sarebbe dovuto privare prima del previsto della preziosa collaborazione del suo attendente. Per lui Alfonso era come un fratello minore e non voleva vederlo ammazzato a bastonate con una croce intagliata sulla pelle della fronte. Meglio perderlo e sperare per lui una vita felice. Non era sicuro che quella relazione avrebbe potuto significare per il suo segretario la nuova meravigliosa vita che Alfonso sognava, ma tra i pericoli, il più urgente da affrontare era sicuramente la minaccia rappresentata da Michele. Era quasi certo che la catena di omicidi fosse da ricondursi al suo gruppo. Probabilmente non tutti erano al corrente degli atti criminosi messi in atto da qualcuno e probabilmente c’era una cupola che decideva e un braccio armato che eseguiva, non più di cinque o sei persone in tutto che si stavano costruendo attorno consensi per arrivare poi a mettere in discussione la sua autorità. Forse, se fossero state certe della propria forza, avrebbero attentato anche alla sua vita.

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<“Negli ultimi giorni verranno tempi difficili, perché gli uomini saranno egoisti, amanti del denaro, vanagloriosi, superbi, bestemmiatori, ribelli ai genitori, ingrati, irreligiosi, insensibili, sleali, calunniatori, intemperanti, spietati, senza amore per il bene, traditori, sconsiderati, orgogliosi, amanti del piacere anziché di Dio, aventi l’apparenza della pietà, mentre ne hanno rinnegato la potenza[1]“> questo diceva Michele, vestito completamente di nero, col mantello ancora addosso e il cappuccio tirato sulla testa nonostante nella stanza il fuoco ardesse vivacemente a scaldare i convenuti che stavano seduti per terra, in circolo, mentre il prete era accomodato su una cassapanca. C’erano almeno trenta persone e la stanza usata da sempre per le riunioni, la camera più grande della casa di Rolanda, stava diventando piccola, tanto che donna stava facendone costruire una molto più grande dall’altra parte della casa, sul retro, in modo che fosse nascosta agli occhi di chi passava per la strada. Matteo si era sistemato vicino a Gusberto e Rolanda per poter sentire meglio quello che i due si dicevano. Ma nè loro nè altre persone si scambiavano una parola. Semplicemente rispondevano alle preghiere con altre preghiere in latino antico, recitate a memoria. Probabilmente molti dei presenti non ne capivano nemmeno il significato. La luce del fuoco e quella delle lampade danzava sugli abiti della gente, sui loro volti che si alzavano a cercare il volto del prete anziano. Il viso di Michele, che le aveva le luci alle spalle, quasi non si distingueva mentre la sua figura sembrava contornata di luce. Il prete ripeteva frasi dell’Apocalisse di Giovanni, in greco, i fedeli gli rispondevano con una litania in latino. Quindi puntava il dito verso il vuoto, in direzione della Cattedrale e lanciava anatemi contro il Vescovo e la chiesa di Roma. Quindi profetizzava nella lingua del popolo le più atroci piaghe parafrasando e interpretando a modo suo il testo sacro. Parlava de “il grande drago, il serpente antico, colui che chiamiamo il diavolo e Satana”. Tuonava <“Poi vidi salire dal mare una bestia che aveva dieci corna e sette teste, sulle corna dieci diademi e su ciascuna testa un titolo blasfemo”[2]>. Quel racconto alla gente di Genova evocava la leggenda popolare dei serpenti marino che rapivano i naviganti, che li portavano giù negli abissi rendendoli schiavi e costringendoli a vivere in catene sul fondo del mare, coperti di alghe, finchè il loro corpo non fosse perfettamente saponificato “in vita” e solo allora li sbranava mettendo così, finalmente, fine alla loro sofferenza. Matteo si era sentito rabbrividire. Gli tornava alla memoria quello che da piccolo la madre gli raccontava del fratello di suo padre, partito con sei uomini e la nave carica per commerciare stoffe tinte e mai più tornato a casa. A quel punto Gusberto si era alzato e aveva camminato lentamente fino a raggiungere Michele. In piedi accanto all’anziano sacerdote, si era girato verso i convenuti, e aveva recitato anche lui un passo dell’Apocalisse, ma in lingua contemporanea, in modo che tutti potessero comprendere. <La bestia che io vidi era simile a una pantera, con le zampe come quelle di un orso e la bocca come quella di un leone. Il drago le diede la sua forza, il suo trono e la sua potestà grande>. Tutti avevano risposto in coro <“A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”.>. Ad ogni breve frase detta dal giovane sacerdote, tutti in coro ripetevano lo stesso versetto, quasi come se fosse una formula magica capace di scacciare il Demonio. A volte i presenti non aspettavano nemmeno che il sacerdote terminasse e ripetevano la litania coprendo con un coro cupo le ultime parole di Gusberto mentre Michele oscillava avanti e indietro col busto. La cerimonia era diventata un groviglio ipnotico di parole, minacce, catastrofiche profezie, ammonimenti. I brani dell’ Apocalisse venivano mescolati, i più impressionati venivano ripetuti mentre quelli non calzanti alla situazione nè utili alla causa venivano tralasciati. Matteo aveva l’impressione che alcuni venissero adattati ad arte alla bisogna e si era ripromesso di verificarli sul testo una volta giunto a casa. La litania diventava sempre più veloce a trascinare tutti in un gorgo di paura superstiziosa che aveva attanagliato anche l’infiltrato, un’atmosfera pesante perché sull’anima di ognuno venivano scaricati i peccati del mondo. A un certo punto Gusberto si era fermato. Aveva preso un lungo respiro e aveva guardato tutti in faccia, uno per uno, facendo scorrere lo sguardo, occhi negli occhi per un brevissimo interminabile momento con ciascuna delle persone che aveva di fronte. Poi aveva ricominciato a parlare, ma questa volta molto lentamente, scandendo le parole: <È vicino il momento in cui l’Agnello aprirà il sesto sigillo. “Vidi che vi fu un violento terremoto. Il sole divenne nero come sacco di crine, la luna diventò tutta simile al sangue, le stelle del cielo si abbatterono sopra la terra, come quando un fico, sbattuto dalla bufera, lascia cadere i fichi immaturi[3]”. Questo accadrà e accadrà molto presto se non interverremo a cambiare la rotta, a rovesciare la guida di questa città che si sta allontanando da Dio>.

<“A Colui che siede sul trono e all’Agnello lode, onore, gloria e potenza, nei secoli dei secoli”> avevano risposto per l’ultima volta i presenti. Poi il silenzio in cui ciascuno dei convenuti navigava con terrore nel proprio mondo fatto di superstizioni, di spavento, di solitudine di fronte sia alla grandezza dell’Altissimo sia all’infinito Male. Matteo aveva improvvisamente percepito una profonda sensazione di freddo. Ne cercava le ragioni nella suggestione che Michele e Gusberto avevano creato ad hoc per quella serata in cui nulla era stato lasciato al caso, ma si era reso conto d’improvviso che il freddo non era nella sua anima, ma nel suo corpo. Il fuoco nel camino era ridotto a poche braci e a un ammasso di ceneri. Anche l’anziano prete, che pure era il più vicino al camino, non godeva più del tepore della fiamma. Quindi aveva congedato tutti. <Offrite al Signore una rinuncia personale, una privazione dell’anima o del corpo – aveva detto -, fate penitenza e ricordate che per continuare la Santa Missione di sottrarre la società al Maligno c’è bisogno di molto denaro. Bisogna usare la moneta, che è strumento del Demonio, per lottare contro di lui. Solo così potremo essere salvi>. Mentre tutti uscivano, si era piantato accanto alla porta con la mano tesa mentre Gusberto pregava Matteo e pochi altri di fermarsi ancora qualche minuto. Il giovane prete aveva congedato anche Ronalda: ben sapeva che di lei non ci si poteva fidare fino in fondo e che meno sapeva dell’azione di discredito iniziata nei confronti del Vescovo e più la missione aveva probabilità di riuscita. <In fin dei conti questa è casa mia> aveva tentato di protestare la donna. Ma Gusberto l’aveva presa da parte: <Questo incontro, devota Ronalda – aveva mentito il prete pur di togliersela d’attorno – serve soltanto per testare la fedeltà di coloro che erano stati chiamati a colloquio. Alcuni potrebbero non parlerebbero liberamente se ci fossero altre persone ad ascoltare>. La “pia donna” masticando amaro, aveva dovuto accettare di uscire dalla porta che conduceva alle cucine, ovviamente ripromettendosi di origliare, ma il giovane prete immaginava che questa sarebbe stata la sua reazione e aveva aperto d’improvviso la porta trovandola lì, con l’orecchio teso. L’aveva guardata, allora, con uno sguardo cattivo, come si guarda un cane che ha fatto una brutta marachella e lei impaurita, con le orecchie basse proprio come un cane, si era veramente allontanata. A essere chiamati a rapporto erano stati quattro giovani di sesso maschile. Tutti piuttosto prestanti. <La Verità ha bisogno di voi come soldati – aveva detto Michele -. Se la amate siete chiamati a difenderla e ad offendere coloro che non la amano>. Il più giovane aveva reagito con entusiasmo, esplodendo in un “Sì!” che non lasciava scampo a interpretazioni. Gli altri, invece, erano evidentemente perplessi. Cosa significava essere “soldati della Verità”? Cosa avrebbero dovuto fare? Nessuno dei tre, però, aveva il coraggio di fare direttamente la domanda. Tutti aspettavano che l’anziano prete parlasse, ma lui fece una lunga pausa per studiare le reazioni dei ragazzi. Matteo si sforzava di non far trasparire le proprie emozioni, ma in questo suo tentativo il viso gli si era infiammato come se stesse alzando con sforzo un peso incredibile. <Che c’è? Hai paura?> aveva chiesto Gusberto. Ma Michele non aveva atteso la risposta e aveva rivelato che era sua intenzione costituire una “guardia” per difendere i vertici del gruppo (cioè se stesso e Gusberto, aveva pensato Matteo), ma anche per opporsi al Vescovo. C’era poi un altro grave problema da affrontare, aveva detto. Quello dei Saraceni, contro il quale Ramperto faceva poco o niente e che prima o poi sarebbero tornati. <Non è passato molto tempo da quando moltissimi nostri fratelli morirono o furono ridotti in odiosa schiavitù – aveva detto Michele – nonostante l’assemblea generale convocata non appena si seppe dell’avvicinarsi della flotta di Safian Ben-Casim avesse organizzato la difesa per le tre quartieri di Castello, Borgo e Prè e avesse costruito torri d’avvistamento, bastioni e ripari. Voi sapete cosa raccontano quelli che, liberati dal Califfo Obeid che i suoi uomini chiamano Miramolino, per chiedere inutilmente in cambio i prigionieri della sua razza che erano presi della nostra città. Le donne più belle sono state violentate e ridotte a concubine di quegli animali, che meglio sarebbe stato per loro morire. Tanto che alcune per la vergogna hanno rifiutato di tornare indietro e altre si sono uccise. Anche i bambini sono stati usati come servi o, peggio, anche loro violentati, perché i saraceni sono bestie e praticano abitualmente rapporti contro natura anche a danno dei più piccoli. Tra questi disgraziati ci sono certamente anche vostri amici e parenti. Un giorno, molto presto, in questa situazione potreste esserci anche voi e potrebbero esserci tutti coloro che amate. Le navi di Safian Ben-Casim torneranno bene armate per liberare gli africani che sono qui ancora prigionieri. Voi vedete ancora le macerie e la distruzione laddove i saraceni sono riusciti ad arrivare. I soldati della cattedrale non basterebbero a respingere un attacco in forze. Dobbiamo organizzarci per respingere gli infedeli, distruggerli, sterminarli, perché non possano più tentare di prendere la città. Non possiamo difenderci con le sole navi mercantili perché nei periodi in cui la navigazione è più facile, d’estate, proprio quando arrivano questi maledetti, le imbarcazioni e gli uomini sono tutti fuori dal porto e qui restano solo le donne e qualche vecchio mercante>. Matteo pensava che su questo argomento padre Michele avesse ragione. Quando, qualche anno prima, i Saraceni avevano attaccato Genova, la gente si era difesa con forza e con tenacia. Appena era giunta voce dell’avvicinarsi della flotta, le compagnie della città avevano convocato l’assemblea del popolo. I mercanti avevano deciso di non fare partire le navi e di tenerle pronte a intervenire appena fuori dal golfo. Tutta la merce alimentare era stata ammassata in granai e dispense. L’assemblea aveva deciso di restaurare l’antico castello con le sue tre torri. All’estremità del Borgo era stata costruita una grande torre di legno. Alle foci del Bisagno e del Polcevera, dove le navi nemiche potevano avvicinarsi più facilmente che in porto, erano state sistemate catapulte e altre macchine da guerra. Il Borgo era stato difeso rinforzando le mura dove era possibile. Il tutto in soli otto giorni. Saffian era arrivato con trenta navi e cento “scelandie”, cioè galee. Le più grosse contenevano duecento persone e le più piccole cento. La flotta partita il 5 maggio dalla Sicilia era arrivata in vista di Genova alla metà del mese. Gli infedeli non erano riusciti a mettere la città sotto assedio. Avevano appena messo a segno qualche incursione rapendo i pochi ostaggi che erano riusciti ad agguantare. Ma la difesa era pronta e troppo forte per i saraceni che non si aspettavano certo una simile accoglienza. Con un ardito raid navale in forze, i genovesi erano riusciti a conquistare ben 17 navi degli invasori perdendone soltanto una. Le altre avevano continuato ad incrociare nelle acque della Liguria per qualche mese ed erano state poi decimate da una tempesta. Saffian era tornato in patria con quello che gli restava della flotta. Certo Michele aveva ragione. L’ammiraglio del califfo Obeid sarebbe tornato con più navi e spinto dalla voglia di liberare la gente del suo popolo che era stata catturata e che adesso veniva tenuta in prigione o, più spesso, impiegata nel lavoro dei campi o per la costruzione e riparazione degli edifici pubblici. Matteo si era ripromesso di parlare di tutto questo al padre e al Vescovo. Possibile che, come diceva l’anziano prete, non stessero pensando a una difesa? Spaventati dalla prospettiva dell’assalto dei saraceni prima ancora che dal demonio, anche i giovani che prima tentennavano ad accettare la proposta di padre Michele si erano uniti con entusiasmo alla causa e avevano promesso di reclutare alcuni loro amici per organizzare l’“esercito di dio”. Si sarebbero incontrati nuovamente alcuni giorni dopo. Il problema da superare era quello convincere un numero cospicuo di uomini a prestare servizio senza ricevere alcun compenso. Solo la paura dei saraceni poteva essere una spinta sufficiente.

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Il giorno dopo Matteo aveva ricevuto la visita del Vescovo e gli aveva spiegato per filo e per segno tutto quello che era accaduto durante la riunione dei contestatori avendo cura di stilare l’elenco dei partecipanti. Ramperto era parso subito molto preoccupato perché se era vero che in effetti c’era la necessità di allestire una difesa contro i possibili invasori, era anche chiarissimo che Michele non avrebbe usato i propri fedelissimi solo per respingere gli assalti. <Sta mettendo su una forza per tentare di rovesciarmi> aveva detto il Vescovo con un filo di voce, come se parlasse tra sè e sè. <Bisogna che sia tu a mettere su l’esercito contro i saraceni – lo aveva incalzato Adalberto – prima che sia lui a farlo. Altrimenti l’emergenza gli conquisterà consensi. La paura lavorerà per lui, il terrore che gli africani arrivino da un momento all’altro sarà il suo migliore alleato>.

<Bene, allora oggi stesso ne parlerò con Alfonso. La sua è una mente fina e certamente sarà capace analizzare i “pro” e i “contro”, di trovare la soluzione migliore tenendo anche conto del fatto che non possiamo pagare un esercito. Bisogna convincere la gente a lavorare senza ricevere in cambio nè denaro nè legna, nè prodotti della terra nè vino. Bisogna che sia il popolo a chiederci di fare parte della difesa, che siano i mercanti a chiederci di finanziarla. D’altro canto è nell’interesse di tutti>. Poi Ramperto si era rivolto al giovane Matteo. <Continua la tua missione come se nulla fosse accaduto e aggiornaci su tutti quelli che aderiscono al progetto del vecchio prete>. Quindi si era incamminato verso la Cattedrale per fare il punto col suo attendente e organizzare sia un piano in grado di fermare Michele, sia una difesa stabilmente operativa contro i saraceni alla quale, era vero, non aveva mai pensato.

©Monica Di Carlo 2015 – Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione anche parziale senza il consenso dell’autore.

[1] Timoteo 3:1-5

[2] “Apocalisse” di Giovanni.

[3] Apocalisse di Giovanni


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